lunedì 28 febbraio 2011

(sub)urban V. [sipario]


Ci sono bla bla bla flaccidi e unti che si palpeggiano furiosi fra l’ansimare della notte fredda; forse pioverà, forse no.
Dio è andato in vacanza e ha spento il cellulare, ha chiesto un permesso permanente.
Anzi, magari dio è in malattia, ha preso la gonorrea, o lo scolo.
Forse ho preso lo scolo, pensa S.
Non dovevo chiavarmi quella lì senza conoscerla; fa il moralista affranto.
Osserva L. scivolare quietamente fra i sorrisi di D., fra le sue parole, si vede che ne ha voglia, brutta troia.
P. ha abbandonato gli inglesi, gli orbita intorno con fare ammirato.
M. è al telefono, ma non ci importa molto.
Vi siete mai drogati?, e la domanda esplode beffarda sventrando qualche povero piccolo bla rimasto a mezz’aria.
Per un momento, uno solo, sudaticcio, tutti hanno tante risposte strette in gola, e troppo vuoto nella testa.
S. incrocia le braccia, si afferra con forza, si stringe da solo, si concede un conforto che non vuole, perché non ne ha bisogno, e non ne avrà mai.
Perché? chiede insicura L.
Perché lo voglio sapere, dice S., bruscamente; è lei che gli ha passato lo scolo, che schifo.
Io sì.
P. sente sguardi che gli si legano intorno, lo inchiodano alla scenografia bolognese, e lui, bravo lui, si lancia in un’interpretazione superba.
Una volta un paio di amici mi hanno portato un po’d’erba, e ci ho preso gusto.
S. dispiega dei denti drogati in un sorriso emaciato, un sorriso cattivo, sporco.
No, io dico: vi siete mai drogati per davvero?
Sottolinea quasi con foga le ultime parole, le imbelletta e le incide nel vento freddo.
P. è spiazzato, perde terreno, il pubblico rumoreggia, si accenderanno le luci, finirà tutto.
Ma lui è un Macbeth di strada, furbo e vissuto, nessun fantasma da armadio, e dice, fieramente: una volta.
[cazzata]
S. appare sorpreso, si porta alle labbra un bicchiere di plastica e beve un sorso di birra di plastica.
Davvero?
Intanto si sono spostati verso l’English Empire, e ci entrano.
Si mettono nella sala fumatori, sono ormai le due, e le pareti e l’aria hanno l’odore di sigarette morte.
P. sta buffoneggiando, declamando un canovaccio stinto, aggiunge dettagli, colori, sapori.
S. lo sa che sta mentendo, ma non gli importa. È così terribilmente patetico da fargli venire voglia di perdere altro tempo.

M. era al telefono, no? E ha chiamato A., per sapere cosa stesse facendo.
E A. faceva il sostenuto, si lasciava andare in frasi smozzicate, offeso, stupido.
Non è andato all’Irish, non ne aveva voglia, e alla fine non gli piace troppo come locale.
Quella di facoltà gli ha chiesto il numero, ma lui non la chiamerà, perché non è una persona poi così interessante.
Legge libri orrendi.
Ma a M. non interessa, perché lei ha bevuto un po’troppo, ed è ancora arrabbiata per il litigio con I.
E perché A. un po’le piace, no?
Allora magari lei lo chiama lì, e magari parlano un po’, e magari lei lo bacia.
Così poi magari potrà finalmente fare l’amore.
No?

Ma guarda, ti dico, ho preso un laccio di plastica, e bum, giù di brutto.
La testa che mi gira, tipo, e poi i colori tutti strani, le voci lontane, e lui che mi guarda e fa, oh vez piglia male, e io ma no e poi così tutta la sera.
Dai, dai, ancora, dice S.
Stupiscimi, finiscimi.
Dimostrami e denuda la tua miseria, lasciamela assaggiare e sputare.
Poi il cellulare vibra.
Un messaggio, lo spaccino che scrive tra mezz’ora in via del guasto vicino al muro.
I soldi.
S. non ce li ha tutti, se li è spesi per annacquare le cazzate di P.
Il portafogli rigurgita solo quaranta euro.
Ne mancano.
Però non ha voglia di litigare, di farsi picchiare.
Senza aspettare il momento giusto, dice senti P, ci facciamo insieme?
P. rimane con la bocca storta in un sorriso gongolante, che poi cancella.
Eh?
Sì dai, ne sai, mi sembri uno che sa come divertirsi senza farsi del male. Proprio come me.
P. guarda gli altri, e gli altri sono tutti suoi, suoi e di S.
Non dicono niente, aspettano, perché sono solo un pubblico pagante, e vogliono di più.
Così P. risponde oh dai va bene, ma quando?, e S. ah tra mezz’ora c’è il mio spaccino in via del Guasto, lo trovi vicino al muro con il rampicante. Lo riconosci, ha i rasta biondi lunghissimi. Guarda, pago io tutto, e gli allunga quaranta euro.
Poi il resto non gl’importa più.

D. guarda le mani di L., guarda le sue gambe, le sue labbra, e conta i momenti che perde.
Potrebbe appoggiarle una mano sul ginocchio, o sfiorare la sua, o chiederle di fumarsi una paglia e poi baciarla.
Ma lei ci starebbe?
Deve giocare, deve giocare.
E se perdo?
L. pensa che D. è uno stupido, uno qualunque, uno che non ci prova, che non gioca.
Uno che l’ha lasciata nel suo piumone a vergognarsi per colpa di uno stronzo di tossico, per una scopata senza perché, senza dolore e senza colore.
L. pensa che D. non la vuole, non la cerca.
L. pensa che D. se ne sta soltanto seduto lì, e basta.

A. cammina veloce per Via Zamboni, le luci di Bologna lo insultano e lo schiaffeggiano, ma lui va da M. che lo aspetta.
Allora A. rallenta il passo, sorride, guarda il cantiere di piazza Rossini e pensa che a lui non mancano mattoni, solo qualche crepa, di qua e di là.
Compiaciuto, ricomincia a camminare, lento, misurato, teatrale.

P. con i soldi in tasca quasi corre per arrivare in via del Guasto, e sa che non si farà per davvero, dirà di no all’ultimo, perché non ne avrà voglia.
S. gli crederà, lo rispetta, sono amici, gli ha dato pure i soldi senza pensarci troppo e non ne ha più parlato.
Vede il muretto nello sporco del buio, cerca con lo sguardo lo spaccino, lo vede, e gli va incontro.

M. trascina i propri pensieri piano piano dietro agli occhi, li annega sul fondo, aspetta che tutto passi.
A. non arriva, è uno stronzo, un montato.
No è bello, è brillante, è diverso.
E anche se non lo fosse, lei ne ha bisogno.
Perché?
Perché lei vuole baciare baciare baciare e lasciarsi tutto il mondo a galleggiarle nel cuore, senza sosta, e perché si sveglia la mattina stanca di svegliarsi ogni mattina, con una luce di gomma che le ferisce gli occhi e le violenta i sogni.
Perché ha le mani consumate dal tanto stropicciarle, e i capelli arruffati per i troppi pensieri.
Perché le fanno male le parole e i piedi si trascinano pesanti per le sporcizie di Bologna e per i corridoi dell’università.
Perché odia I. e odia D. e odia L. e odia P. e S. e M. e A., ma vuole A., vuole lui, che è affascinante, che è alto, che fa ridere, e che non vuole L., e che non si è scopato L., e che si scopa lei, e che forse l’amerà e le appoggerà il mento sulla spalla per guardarla negli occhi e dirle soltanto ciao e poi la vorrà abbracciare e poi la vorrà baciare e poi e poi e poi.
E poi A. è in ritardo.
Ma, tanto, così è tutto l’universo.

L. prende fuori il pacchetto di Camel dalla borsetta, si appoggia una sigaretta fra le labbra, poi guarda D. e gli fa hai l’accendino?
Lui meccanico le porge il suo, e continua a far finta di chiacchierare.
L. si alza, esce, veloce.
S. si sporge sul tavolinetto, si avvicina a D. e gli fa, oh, lei me la sono chiavata.

M. controlla l’ora sul cellulare, le due e trentasette, e ripensa magari anche a pagina centoquarantasette, a quel suo colore noioso e monotono.
Dov’è A.?
E A. arriva, coraggioso eroe metropolitano, fottutamente pieno di sé, e delle sue belle parole.
Le si avvicina, e schioccano lettere invisibili che schizzano da una bocca all’altra, voraci.
E loro due sono come quelli che si ritrovano persi dopo un lungo viaggio, che si desiderano, così, all’improvviso, ma sanno chiedersi soltanto che ore sono, e parlare del tempo.
Però è bello anche così.
P. va dallo spaccino rasta, via del Guasto odora di piscio e di squallore.
Lo spaccino lo guarda, gli dice vuoi del fumo? e P. risponde S. mi ha detto che ti devo comprare un grammo di…e impacciato non sa come concludere la frase.
Ma il rasta alza la voce, dice qualcosa ma P. non lo capisce, e poi un grammo il cazzo mi deve dei soldi, ce li hai tu?
P. arrossisce violentemente, o almeno sente di farlo, e ha caldo all’improvviso.
Prende i quaranta euro di S.
Mi prendi per il culo? gli sputa addosso l’altro.
No…cioè…S. mi ha dato questi…io non sapevo che ti dovesse dei soldi…ma metà delle parole rimangono a decomporsi incastrate fra i sassi che ha in gola.
Non fare il coglione, chiaro? e adesso lo spaccino quasi sta urlando, e lo spinge con forza.
P. sgrana gli occhi, il cuore gli batte forte, pensa che non pensa, che è un casino, che scappa, che corre, che resta, che grida, e si guarda intorno, ma vuole fare quello che non ha paura, ma non c’è nessuno, e c’è lui e lo spaccino e Bologna e quei quaranta euro.
Biascica un no mi dispiace ma io non c’entro, ma il rasta lo spinge ancora, gli tira uno schiaffo, gli dice non me ne frega un cazzo voglio i miei soldi.
P. con lo schiaffo ha sentito il freddo dietro le orecchie, il cervello rugginoso, la polvere che gratta fra gli ingranaggi, un rumoraccio, creck creck.
Non si muove, le mani contratte.
Lo spaccino si mette le mani in tasca, tira fuori un coltello, di quelli a scatto.
Tak.
Adesso mi dai quei quaranta, il cellulare, i tuoi soldi e pure il giaccone, e poi dici a S. che è uno stronzo peggio di te.
P. potrebbe mettersi a piangere.
P. potrebbe mettersi a urlare.
P. potrebbe scappare via.
P. dice no.
E gli arriva un’altra spinta.
Il rasta agita il coltello, però gli trema la voce anche a lui.
No un cazzo.
P. suda.
Forse potrebbe venire a piovere.
Il rasta urla, alza ancora la voce, probabilmente è fatto, sta andando in paranoia.
Agita la mano, agita il coltello.
P. dice solo no.
Un’altra spinta.
Sembra che all’improvviso nessuno viva più a Bologna, è un deserto, sono solo mattoni morti e bugiardi su cui hanno vomitato cemento negli anni.
Lo spaccino prende P. per i capelli, glieli tira forte, e P. salta in avanti, lo carica goffamente.
C’è una zuffa buffa, da circo; sono due pagliacci impietosi e pasticcioni.
P. si ferma, le gambe morbide cedono come se si sbriciolassero, e guarda tutto ma non vede niente.
La pancia brucia, grida forte, e lui se la stringe, ma è tutta bagnata.
Lo spaccino non urla più, non lo spinge più.
Era caduto anche lui, si alza di scatto, gli occhi sgranati, ha paura, una paura fottuta.
Si mette il coltello in tasca, si gira, fa tre passi, si gira ancora, torna da P., si allontana, improvvisa un tip tap grottesco.
Lo guarda negli occhi, gli sposta la testa.
P. non parla, non ci riesce, la pancia gli fa troppo male.
Il rasta si ricorda che qualcuno potrebbe veramente vivere a Bologna, si fa pallido, si sposta una ciocca lurida di capelli, si stropiccia gli occhi, tira su col naso, mette le mani nelle tasche di P., gli prende il cellulare e i soldi di S.
P. lo afferra per un attimo, ma la mano non è la sua, il corpo non è il suo.
Ha caldo e ha freddo.
Trema, ma non vorrebbe.
La testa è un casino, cose che vanno e che vengono.
Via del Guasto puzza di piscio.
P. gira la testa, apre la bocca, le labbra sono impastate, pesanti, le parole sono grumi di vetri che gli straziano la gola.
La pancia fa male, ma sempre più da lontano.
Per un po’ P. fluttua.
Poi capisce di essersi pisciato addosso.
E capisce tutto.
Comincia a piangere, a dirotto.
Grossi lacrimoni si portano via lo sporco della faccia e lo sporco di quel sabato.
Vuole mettersi a urlare, ma non ci riesce e quello che alla fine sputa fuori è solo mamma mamma mamma mamma mamma mamma ma la mamma non c’è, non può, è scappata, è in vacanza, è in vacanza con dio.
P. si muove, lento, scoordinato, scalcia un po’, la pancia borbotta di nuovo con dolore, e dei conati si fanno largo fra i cocci immondi di parole.
La gola gorgoglia, e a P. si spengono i primi pensieri.
La città non c’è più, sta inghiottendosi indifferente nel buio, mentre la notte si chiude pesante come una scatola, è domenica.
A P. cade la testa da un lato, un rivolo di bava rossa si mescolerà al suo piscio a colorare ancora un po’tutto. Dice mamma, mamma, ancora per un po’.
Poi si annoia.
E muore.

E c’era un’aria cattiva, un’aria silenziosa.
Comincia a piovere, ma nessuno lo sa.
C’è M. che si è riempita le gambe insieme ad A.
E c’è L. che ha cambiato piumone.
E c’è D. che dice domani la chiamo.
E c’è S. che magari si prende un treno, e via.
Ci sono le solite luci, i soliti colori, magari non proprio gli stessi odori.
Ma il Nettuno è sempre indifferente; a lui, di queste cose, frega davvero niente.

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