domenica 13 marzo 2011

una, molecola di treno.


Ci sono di quelle cose che non ci pensi, quando la mattina ti metti le scarpe, o magari ti scotti la lingua con un caffè che potrebbe non essere venuto bene.
Te ne stai lì, pianifichi l’universo intero, dividendoti fra impegni, doveri e pianeti, per obbligo, per amore, per soldi o per noia.
Ci sono di quelle cose che sono così, succedono, e magari nel frattempo ti si era slacciata la scarpa della mattina, o il caffè era rimasto sullo stomaco.
Ad ogni modo, senza starsene troppo a costruire castelli di nuvole, diciamo che c’è una persona, non una sola fisicamente, ma una di cui voglio parlare.
È uno di quegli ometti che noti solo se magari ti si siede vicino, con gli occhiali, il volto dal tempo indefinibile, una bella barba curata, elegante e cauto, e ti immagini dove possa lavorare.
Mettiamo si vada a sistemare in un posto vuoto in treno, o che accada il contrario; il treno si è liberato di un posto apposta per lui.
Adesso decidiamo che ci sono altri, che si siedono, si siederanno o lo hanno già fatto nello stesso vagone; ora sappiamo il dove, ed è la suburbana da Vignola a Bologna, 32 chilometri, circa un’ora di vita sulle rotaie abbracciate al terreno.
Piano piano possiamo capire chi, ma il perché è arbitrario, una scelta momentanea o improvvisa, umidiccia o abbagliante; il perché è una parola, un verbo, un nervo che pulsa, e si costruisce, pezzo pezzo.
Abbiamo apparecchiato  la tavola di sentimenti carnosi e grumi di mondo; tutto sferraglia, si parte, e nel ciuf ciuf si sporca il silenzio di una mattina di sempre.

L’ometto.

Mi presento, sono un ometto che ne sta qui seduto e pensa.
Queste lettere sono i miei impulsi nervosi che viaggiano attraverso le mie cellule e la mia spina dorsale, e vengono battute a macchina per noia e per diletto.
Sono quello con la barba curata, gli occhiali, l’aria elegante e gentile.
Davanti a me, una ragazza, avrà sì e no vent’anni, un profumo di università.
Seduto a fianco a me, questo tizio scomposto, lo sguardo arruffato; non parla, e tutto lui se ne sta appeso fuori dal finestrino. Mi pare puzzi un po’.
Vicino alla ragazza, uno di colore, tutto agghindato a uomo di mondo, impegnato, affidabile, con la sua valigia fra le gambe, ed un sorriso disincantato che gli arriccia le labbra.
Ascolta la musica.
Siamo in quattro, il vagone è pieno, la polvere gorgoglia da ogni dove, e tutto è merda.

La ragazza.

Sono la ragazza che odora di università.
Ho la mia tracolla piena di quaderni ricolmi di appunti e futuro, un  buon sapore in bocca e la mente stanca.
Vado a lezione e prima di leggere qualche pagina di un libro come sempre osservo il pubblico assente di questa nuova giornata.
C’è un ometto che mi guarda, più volte, dalla testa ai piedi.
Che bella barba curata, mi dico, e bella la giacca-cravatta-scarpe-taglio di capelli; uno di quelli che se gli chiedi l’ora risponde prima di tutto con un sorriso.
Poi quello che si tiene aggrappato alle figure che sfumano di fuori, abbastanza strano, e sicuramente poco interessante.
Vicino a me c’è quest’uomo, e sì, è proprio bellissimo con quel suo sorriso tranquillo e la musica che gli sta accarezzando il cervello.


Quello dall’altra parte.

Io non sono stato presentato, mi scuso.
Non sono in mezzo a quegli altri, me ne sto in disparte, con altri ancora, seduto dalla’altra parte.
Però mi piacciono le scarpe di quell’ometto, ed i suoi occhiali.
Io ho trent’anni ormai passati, e non so molto, non dico molto, ma mi piace vedere chi ha una vita che sembra migliore della mia.
La mia laurea è un pezzo di carta, perché non c’è scritto sopra che sono brillante, simpatico, bello o un genio.
In effetti, non sono niente di tutto ciò.
Faccio un lavoro così e cosà, hai presente? Niente da dire è una vitamasturbazione, cioè che spettacolo, ma nemmeno del tipo sputaci sopra.
Però mi piace vedere chi ha una vita che sembra migliore della mia, e pensare a come sarei io, se avessi davvero una vita migliore di questa qui, su cui sono seduto adesso.

L’ascoltatore.

Non sono quello che ascolta la musica, badate bene.
Anch’io me ne sto dall’altra parte, e ascolto le galassie infinite che si mettono in moto ovunque, fatte di suoni, rumori, melodie spaventate o coraggiose.
Un colpo di tosse, il giornale che si scuote di dosso le notizie, o soltanto il mettersi più comodi.
Il mondo ha questa sua colonna sonora che gli scriviamo noi, di nascosto, e poi la dimentichiamo.
Però io ci sto attento, e me la godo tutta.

Musica.

Mi presenterei, ma c’è la musica che mi massaggia il cervello.
Ripassate quando sarà finita questa canzone, e allora parleremo.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, e adesso sono 3189 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

Quello dall’altra parte.

Secondo me, potrebbe fare una cosa tipo avvocato, o manager.
Magari è ricco.
A casa avrà un MacBook Pro.
Io lo vorrei, e ci fare i miei progetti importanti. Oppure è un architetto.
Lui si inventa le città, le mette in piedi, come se creasse delle giungle di Lego.
Di sicuro sua moglie è una bella donna, e da giovane era una figa, però di quelle intelligenti, dai.
Non solo tette culo e scopami fino alla morte, no?
Però non so se ha dei figli.
Però…sì, la fede ce l’ha, eccola, e quindi è sposato.
Dev’essere bello avere una vita così, ed essere sposati. Il matrimonio non è una cosa da tutti eh, perché poi se sei uno che fa un lavoro così e cosà poi va tutto a bruciarsi, e tu non puoi farci niente, perché i soldi per rimettere a posto le cose non ce li hai.
E i soldi poi le cose le mettono pure in ordine, nelle loro caselle pulite, nei cassetti precisi e bellissimi, così che alla fine te ne torni a casa, e mangi roba buona, e ti siedi davanti alla tv.
Però io ho una tv, e lui sicuramente ha uno schermo piatto, con le immagini che brillano.
Non è che i miei giorni brillino proprio, davvero.
La ragazza.

Siamo già a Bazzano, però io non voglio leggere niente.
L’esame è lontano, ma dovevo stare in pari.
Non mi va, non è possibile.
Sennò poi non riuscirei a fare tutto quello che vorrei.
Magari aspetto ancora un po’, poi leggo.
A pranzo continuo.
No a pranzo no, mi vedo con […], poi ho lezione.
Dai adesso leggo.
Alla prossima fermata, prendo il libro.

L’ometto.

Mi gratto il mento, e sento che la barba è perfetta, lì così com’è.
Sono elegante, e mi piazzo così al vertice della catena metropolitana, mi guardano e sanno che sono in alto, lontano da altri.
Non sono di quelli che masticano polvere e pozzanghere; io mi vesto di successo e me ne fotto di tutti e tutto, se voglio.
È tutto abbastanza semplice, lo tengo chiuso nella cartella di cuoio che tengo fra i piedi.
Poi c’è quell’altro che se sta dall’altra parte, mi guarda fisso, ed io subito gli controllo le scarpe; si può capire tantissimo dalle scarpe che indossi.
Possono raccontarti immediatamente come vorresti vestirti, chi vorresti essere, in cosa vorresti trasformarti.
E quello lì ha delle Nike Classics dai colori squallidi e stupidi, e la linguetta si vede da sotto quei jeans anonimi, e, dio no, ha i lacci lunghi e quel nodo da boy-scout.
Aspetta, aspetta, non è finita: guarda quella felpa da vivo-a-casa-con-la-mamma, con la lampo, il collo di felpa, e la giacca a vento da prete.
Non va affatto bene, e allora mi metto meglio di profilo, e faccio vedere il colletto della mia camicia, di un bianco così innocente da sembrare proprio finto.
Tu una camicia così non te a puoi permettere, vero?
E queste scarpe? Le hai viste bene?
Non appartengono al tuo mondo, ed io non sono del tuo mondo.
Osservami bene, morditi il cuore, e fottiti d’invidia.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, e adesso sono 3166 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

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