lunedì 28 febbraio 2011

(sub)urban V. [sipario]


Ci sono bla bla bla flaccidi e unti che si palpeggiano furiosi fra l’ansimare della notte fredda; forse pioverà, forse no.
Dio è andato in vacanza e ha spento il cellulare, ha chiesto un permesso permanente.
Anzi, magari dio è in malattia, ha preso la gonorrea, o lo scolo.
Forse ho preso lo scolo, pensa S.
Non dovevo chiavarmi quella lì senza conoscerla; fa il moralista affranto.
Osserva L. scivolare quietamente fra i sorrisi di D., fra le sue parole, si vede che ne ha voglia, brutta troia.
P. ha abbandonato gli inglesi, gli orbita intorno con fare ammirato.
M. è al telefono, ma non ci importa molto.
Vi siete mai drogati?, e la domanda esplode beffarda sventrando qualche povero piccolo bla rimasto a mezz’aria.
Per un momento, uno solo, sudaticcio, tutti hanno tante risposte strette in gola, e troppo vuoto nella testa.
S. incrocia le braccia, si afferra con forza, si stringe da solo, si concede un conforto che non vuole, perché non ne ha bisogno, e non ne avrà mai.
Perché? chiede insicura L.
Perché lo voglio sapere, dice S., bruscamente; è lei che gli ha passato lo scolo, che schifo.
Io sì.
P. sente sguardi che gli si legano intorno, lo inchiodano alla scenografia bolognese, e lui, bravo lui, si lancia in un’interpretazione superba.
Una volta un paio di amici mi hanno portato un po’d’erba, e ci ho preso gusto.
S. dispiega dei denti drogati in un sorriso emaciato, un sorriso cattivo, sporco.
No, io dico: vi siete mai drogati per davvero?
Sottolinea quasi con foga le ultime parole, le imbelletta e le incide nel vento freddo.
P. è spiazzato, perde terreno, il pubblico rumoreggia, si accenderanno le luci, finirà tutto.
Ma lui è un Macbeth di strada, furbo e vissuto, nessun fantasma da armadio, e dice, fieramente: una volta.
[cazzata]
S. appare sorpreso, si porta alle labbra un bicchiere di plastica e beve un sorso di birra di plastica.
Davvero?
Intanto si sono spostati verso l’English Empire, e ci entrano.
Si mettono nella sala fumatori, sono ormai le due, e le pareti e l’aria hanno l’odore di sigarette morte.
P. sta buffoneggiando, declamando un canovaccio stinto, aggiunge dettagli, colori, sapori.
S. lo sa che sta mentendo, ma non gli importa. È così terribilmente patetico da fargli venire voglia di perdere altro tempo.

M. era al telefono, no? E ha chiamato A., per sapere cosa stesse facendo.
E A. faceva il sostenuto, si lasciava andare in frasi smozzicate, offeso, stupido.
Non è andato all’Irish, non ne aveva voglia, e alla fine non gli piace troppo come locale.
Quella di facoltà gli ha chiesto il numero, ma lui non la chiamerà, perché non è una persona poi così interessante.
Legge libri orrendi.
Ma a M. non interessa, perché lei ha bevuto un po’troppo, ed è ancora arrabbiata per il litigio con I.
E perché A. un po’le piace, no?
Allora magari lei lo chiama lì, e magari parlano un po’, e magari lei lo bacia.
Così poi magari potrà finalmente fare l’amore.
No?

Ma guarda, ti dico, ho preso un laccio di plastica, e bum, giù di brutto.
La testa che mi gira, tipo, e poi i colori tutti strani, le voci lontane, e lui che mi guarda e fa, oh vez piglia male, e io ma no e poi così tutta la sera.
Dai, dai, ancora, dice S.
Stupiscimi, finiscimi.
Dimostrami e denuda la tua miseria, lasciamela assaggiare e sputare.
Poi il cellulare vibra.
Un messaggio, lo spaccino che scrive tra mezz’ora in via del guasto vicino al muro.
I soldi.
S. non ce li ha tutti, se li è spesi per annacquare le cazzate di P.
Il portafogli rigurgita solo quaranta euro.
Ne mancano.
Però non ha voglia di litigare, di farsi picchiare.
Senza aspettare il momento giusto, dice senti P, ci facciamo insieme?
P. rimane con la bocca storta in un sorriso gongolante, che poi cancella.
Eh?
Sì dai, ne sai, mi sembri uno che sa come divertirsi senza farsi del male. Proprio come me.
P. guarda gli altri, e gli altri sono tutti suoi, suoi e di S.
Non dicono niente, aspettano, perché sono solo un pubblico pagante, e vogliono di più.
Così P. risponde oh dai va bene, ma quando?, e S. ah tra mezz’ora c’è il mio spaccino in via del Guasto, lo trovi vicino al muro con il rampicante. Lo riconosci, ha i rasta biondi lunghissimi. Guarda, pago io tutto, e gli allunga quaranta euro.
Poi il resto non gl’importa più.

D. guarda le mani di L., guarda le sue gambe, le sue labbra, e conta i momenti che perde.
Potrebbe appoggiarle una mano sul ginocchio, o sfiorare la sua, o chiederle di fumarsi una paglia e poi baciarla.
Ma lei ci starebbe?
Deve giocare, deve giocare.
E se perdo?
L. pensa che D. è uno stupido, uno qualunque, uno che non ci prova, che non gioca.
Uno che l’ha lasciata nel suo piumone a vergognarsi per colpa di uno stronzo di tossico, per una scopata senza perché, senza dolore e senza colore.
L. pensa che D. non la vuole, non la cerca.
L. pensa che D. se ne sta soltanto seduto lì, e basta.

A. cammina veloce per Via Zamboni, le luci di Bologna lo insultano e lo schiaffeggiano, ma lui va da M. che lo aspetta.
Allora A. rallenta il passo, sorride, guarda il cantiere di piazza Rossini e pensa che a lui non mancano mattoni, solo qualche crepa, di qua e di là.
Compiaciuto, ricomincia a camminare, lento, misurato, teatrale.

P. con i soldi in tasca quasi corre per arrivare in via del Guasto, e sa che non si farà per davvero, dirà di no all’ultimo, perché non ne avrà voglia.
S. gli crederà, lo rispetta, sono amici, gli ha dato pure i soldi senza pensarci troppo e non ne ha più parlato.
Vede il muretto nello sporco del buio, cerca con lo sguardo lo spaccino, lo vede, e gli va incontro.

M. trascina i propri pensieri piano piano dietro agli occhi, li annega sul fondo, aspetta che tutto passi.
A. non arriva, è uno stronzo, un montato.
No è bello, è brillante, è diverso.
E anche se non lo fosse, lei ne ha bisogno.
Perché?
Perché lei vuole baciare baciare baciare e lasciarsi tutto il mondo a galleggiarle nel cuore, senza sosta, e perché si sveglia la mattina stanca di svegliarsi ogni mattina, con una luce di gomma che le ferisce gli occhi e le violenta i sogni.
Perché ha le mani consumate dal tanto stropicciarle, e i capelli arruffati per i troppi pensieri.
Perché le fanno male le parole e i piedi si trascinano pesanti per le sporcizie di Bologna e per i corridoi dell’università.
Perché odia I. e odia D. e odia L. e odia P. e S. e M. e A., ma vuole A., vuole lui, che è affascinante, che è alto, che fa ridere, e che non vuole L., e che non si è scopato L., e che si scopa lei, e che forse l’amerà e le appoggerà il mento sulla spalla per guardarla negli occhi e dirle soltanto ciao e poi la vorrà abbracciare e poi la vorrà baciare e poi e poi e poi.
E poi A. è in ritardo.
Ma, tanto, così è tutto l’universo.

L. prende fuori il pacchetto di Camel dalla borsetta, si appoggia una sigaretta fra le labbra, poi guarda D. e gli fa hai l’accendino?
Lui meccanico le porge il suo, e continua a far finta di chiacchierare.
L. si alza, esce, veloce.
S. si sporge sul tavolinetto, si avvicina a D. e gli fa, oh, lei me la sono chiavata.

M. controlla l’ora sul cellulare, le due e trentasette, e ripensa magari anche a pagina centoquarantasette, a quel suo colore noioso e monotono.
Dov’è A.?
E A. arriva, coraggioso eroe metropolitano, fottutamente pieno di sé, e delle sue belle parole.
Le si avvicina, e schioccano lettere invisibili che schizzano da una bocca all’altra, voraci.
E loro due sono come quelli che si ritrovano persi dopo un lungo viaggio, che si desiderano, così, all’improvviso, ma sanno chiedersi soltanto che ore sono, e parlare del tempo.
Però è bello anche così.
P. va dallo spaccino rasta, via del Guasto odora di piscio e di squallore.
Lo spaccino lo guarda, gli dice vuoi del fumo? e P. risponde S. mi ha detto che ti devo comprare un grammo di…e impacciato non sa come concludere la frase.
Ma il rasta alza la voce, dice qualcosa ma P. non lo capisce, e poi un grammo il cazzo mi deve dei soldi, ce li hai tu?
P. arrossisce violentemente, o almeno sente di farlo, e ha caldo all’improvviso.
Prende i quaranta euro di S.
Mi prendi per il culo? gli sputa addosso l’altro.
No…cioè…S. mi ha dato questi…io non sapevo che ti dovesse dei soldi…ma metà delle parole rimangono a decomporsi incastrate fra i sassi che ha in gola.
Non fare il coglione, chiaro? e adesso lo spaccino quasi sta urlando, e lo spinge con forza.
P. sgrana gli occhi, il cuore gli batte forte, pensa che non pensa, che è un casino, che scappa, che corre, che resta, che grida, e si guarda intorno, ma vuole fare quello che non ha paura, ma non c’è nessuno, e c’è lui e lo spaccino e Bologna e quei quaranta euro.
Biascica un no mi dispiace ma io non c’entro, ma il rasta lo spinge ancora, gli tira uno schiaffo, gli dice non me ne frega un cazzo voglio i miei soldi.
P. con lo schiaffo ha sentito il freddo dietro le orecchie, il cervello rugginoso, la polvere che gratta fra gli ingranaggi, un rumoraccio, creck creck.
Non si muove, le mani contratte.
Lo spaccino si mette le mani in tasca, tira fuori un coltello, di quelli a scatto.
Tak.
Adesso mi dai quei quaranta, il cellulare, i tuoi soldi e pure il giaccone, e poi dici a S. che è uno stronzo peggio di te.
P. potrebbe mettersi a piangere.
P. potrebbe mettersi a urlare.
P. potrebbe scappare via.
P. dice no.
E gli arriva un’altra spinta.
Il rasta agita il coltello, però gli trema la voce anche a lui.
No un cazzo.
P. suda.
Forse potrebbe venire a piovere.
Il rasta urla, alza ancora la voce, probabilmente è fatto, sta andando in paranoia.
Agita la mano, agita il coltello.
P. dice solo no.
Un’altra spinta.
Sembra che all’improvviso nessuno viva più a Bologna, è un deserto, sono solo mattoni morti e bugiardi su cui hanno vomitato cemento negli anni.
Lo spaccino prende P. per i capelli, glieli tira forte, e P. salta in avanti, lo carica goffamente.
C’è una zuffa buffa, da circo; sono due pagliacci impietosi e pasticcioni.
P. si ferma, le gambe morbide cedono come se si sbriciolassero, e guarda tutto ma non vede niente.
La pancia brucia, grida forte, e lui se la stringe, ma è tutta bagnata.
Lo spaccino non urla più, non lo spinge più.
Era caduto anche lui, si alza di scatto, gli occhi sgranati, ha paura, una paura fottuta.
Si mette il coltello in tasca, si gira, fa tre passi, si gira ancora, torna da P., si allontana, improvvisa un tip tap grottesco.
Lo guarda negli occhi, gli sposta la testa.
P. non parla, non ci riesce, la pancia gli fa troppo male.
Il rasta si ricorda che qualcuno potrebbe veramente vivere a Bologna, si fa pallido, si sposta una ciocca lurida di capelli, si stropiccia gli occhi, tira su col naso, mette le mani nelle tasche di P., gli prende il cellulare e i soldi di S.
P. lo afferra per un attimo, ma la mano non è la sua, il corpo non è il suo.
Ha caldo e ha freddo.
Trema, ma non vorrebbe.
La testa è un casino, cose che vanno e che vengono.
Via del Guasto puzza di piscio.
P. gira la testa, apre la bocca, le labbra sono impastate, pesanti, le parole sono grumi di vetri che gli straziano la gola.
La pancia fa male, ma sempre più da lontano.
Per un po’ P. fluttua.
Poi capisce di essersi pisciato addosso.
E capisce tutto.
Comincia a piangere, a dirotto.
Grossi lacrimoni si portano via lo sporco della faccia e lo sporco di quel sabato.
Vuole mettersi a urlare, ma non ci riesce e quello che alla fine sputa fuori è solo mamma mamma mamma mamma mamma mamma ma la mamma non c’è, non può, è scappata, è in vacanza, è in vacanza con dio.
P. si muove, lento, scoordinato, scalcia un po’, la pancia borbotta di nuovo con dolore, e dei conati si fanno largo fra i cocci immondi di parole.
La gola gorgoglia, e a P. si spengono i primi pensieri.
La città non c’è più, sta inghiottendosi indifferente nel buio, mentre la notte si chiude pesante come una scatola, è domenica.
A P. cade la testa da un lato, un rivolo di bava rossa si mescolerà al suo piscio a colorare ancora un po’tutto. Dice mamma, mamma, ancora per un po’.
Poi si annoia.
E muore.

E c’era un’aria cattiva, un’aria silenziosa.
Comincia a piovere, ma nessuno lo sa.
C’è M. che si è riempita le gambe insieme ad A.
E c’è L. che ha cambiato piumone.
E c’è D. che dice domani la chiamo.
E c’è S. che magari si prende un treno, e via.
Ci sono le solite luci, i soliti colori, magari non proprio gli stessi odori.
Ma il Nettuno è sempre indifferente; a lui, di queste cose, frega davvero niente.

giovedì 17 febbraio 2011

(sub)urban IV.


C’è un cinguettare ovattato fatto di plastica fredda; P. apre immediatamente la pagina di chat su facebook, mordendosi leggermente il labbro mentre legge oh noi stasera si va all’osteria solita vieni?, e provando una gioia gocciolante che scivola giù lungo la schiena.
Chi c’è, chiede, ma lo sa già.
Vuole allungare un po’la conversazione solo per sentirsi più voluto, più amato.
Per un poco ce la fa, ma alla fine si spegne tutto, riassumendosi in un bianco appiccicoso fatto di miseria quotidiana.

Claudicando grottescamente, la giornata scivola verso la sera, artigliando di freddo i palazzi timidi ed instupiditi.
C’è ancora quell’aria strana, cattiva, come se all’improvviso dovesse sentirsi un boato di risate stanche e spaventate.
C’è una vecchia con pochi denti e troppi anni che mendica con un cartello unto, aspettando che qualcuno sborsi centesimi di compassione.
Gli alberi, lungo la strada, si spingono in punta di piedi, vogliono acchiappare qualche angelo, magari, e mangiare un po’della sua felicità cristallina.
S. ha la mente sospesa in un vuoto limaccioso, e cammina su di un cemento ovattato, morbido.
È passato da poco dal suo spaccino, gli ha preso due grammi, ma aveva i soldi per pagarne uno solo.
Si sono dati appuntamento per quella sera alle due e venti in una traversa di via delle belle arti.
E intanto la grammatica dei pensieri di S. lascia libere virgole e virgole senza nome, mentre lui si compiace della sua pochezza e della sua magnifica fortuna.
Ad un certo punto, si fa strada, a fatica, un’immagine.
Si colora, piano piano, goffamente, qui e là, e poi, ecco, è una faccia, la conosce, l’ha vista, l’ha baciata.
È quella di ieri (era ieri?), quella che…ma sì…quella…hm.
All’improvviso, barcolla un attimo, ed un sorriso ebete gli si stampa in volta.
Il suo cervello biascica lettere disastrate, e lui si guarda, distanti, le mani.
Poi, tutto passa.
Non si fa domande, e se ne va.

Passano le macchine, BRUMBRUM, e batti le mani a scandire i secondi come si fa sulla giostra di quando eri bambino. Ti fotti la coscienza per qualche briciola di luce, e magari ricominci tutto da capo, senza nemmeno rendertene conto.
Sono quei momenti che dai per scontati, che ti piacciono intimamente, e che vorresti rifiutare con forza.
Raderti, pulirti la bocca, soffiarti il naso, aspettare il verde per passare, guardare in alto e ritrovare il cielo, per terra il cemento e la merda, la gente, quanta gente, ma sempre e solo le solite facce, belle quelle; sputeresti su molti di loro, ma non puoi farne a meno.
Senza, cosa saresti?
Dove andresti?
Allora paghi ancora una volta, un altro giro, e sempre su quel bel cavallino, quello con gli occhi blu, e sì, sì, ancora, e ancora, lanci tutto all’aria.
La morale, la testardaggine, l’orgoglio.
Metti in tasca il tuo fattore evolutivo, conservalo per i giorni di pioggia, e que sera sera.
E così ecco A. caparbiamente avvinghiato a un autobus epilettico che odora di ogni sporco e di ogni miseria.
In viale Berti Pichat sale un uomo, un vecchio, ha i capelli unti, di un colore che sa di vecchiaia.
Le unghie sono lunghe, nere, le mani coperte da uno strato di miseria insalubre.
Ha vestiti sformati, grandi, luridi.
La barba è incolta, stanca, abbandonata.
Si continua a stringere il labbro inferiore, magari un tic.
Gli occhi, vuoti, ma attenti, sono grandi, sciocchi.
Innocenti?
Banale, puoi fare di meglio.
Ma il vecchio adesso piange, da solo, senza emettere un suono, senza guardare nessuno, solo il niente che ha davanti a sé.
L’autobus è pieno, e tutti sono così impegnati a ripetersi a memoria le filastrocche di tutti i giorni che quell’uomo può starsene così, come un coglione, a piangersi addosso, a sputare fuori lacrimoni lenti e patetici, che rigano il volto sudicio e crepato.
A., scendendo, gli passa davanti.
Il vecchio gli appoggia uno sguardo fradicio addosso.
Poi le porte si richiudono, l’autobus cigola, trotterella via, tenendosi tutto dentro.

L. non sta scegliendo la terza maglietta.
Non ha la città che respira sommessamente fuori dalla finestra.
Non ha il computer ronzante in attesa della fine dell’universo.
Non ha più il piumone zozzo di vergogna.
Non ha il cellulare sotto mano, non un sorriso da prestare, non ha un pensiero da inseguire.
L. ha uno specchio, e ci si perde dentro.
Ha un po’paura.
Ha un po’di rabbia.
Ha un po’di freddo, che la morde fra il cuore e il collo.
Ha un po’di odio, che gratta furioso dietro la nuca, ed urla qualcosa ma lei non lo ascolta.
L. scuote la testa, si sposta una ciocca di capelli senza troppa grazia, afferra il giaccone ed esce.

M. apre il portone, ha appena litigato con I. perché i piatti sono rimasti da lavare.
Ma non sarebbe toccato a lei.
Invece ti dico di sì.
Dai, lo faccio domani che devo uscire.
È sempre così.
Non è vero, non esagerare.
E il bagno, allora?
Quello dovevi pulirlo tu giovedì.
Non l’ho fatto?
Guarda che se non alziamo la tavoletta non vuol dire che non devi pensare non ci sia nient’altro da fare.
Sì ma che c’entra?
Devo uscire, ci pensiamo domani.
Troppo comoda.
Ma vaffanculo.
Però questo se l’era tenuto per sé, lo aveva nascosto sotto la lingua, e ne succhiava lentamente l’amaro, trasportata come un’ombra in un sabato a Bologna.

S. si alza pallido da dentro il water.
Poi ci ripensa e ricomincia a vomitare.
E siamo a tre.
Le mani gli tremano, le gambe gli tremano.
È entrato in casa, la testa è come se gli fosse scoppiata, barcollando ha rischiato di cadere per terra.
Si è trascinato verso il bagno, e poi ha iniziato a sputare tutti i suoi peccati.
Quando i conati rallentano, prende il cellulare, richiama l’ultimo numero.
Pronto?, chiede una voce secca, bastarda.
Ma…ma che mer…che merda mi hai venduto? gorgoglia S.
La solita, gli viene risposto con troppa semplicità.
Io non…non te lo pago, il grammo…
Silenzio, per un attimo.
S. pensa che potrebbe vomitare di nuovo.
Poi: no non hai capito un cazzo, ok? Tu mi paghi e basta, visto che già altre volte ti ho fatto il piacere di aspettare troppo perché tirassi fuori i soldi. Hai capito, stronzo?! Se non mi dai i miei soldi ti spacco il culo, e poi vado dalla Digos. Chiaro, cazzone?
Il cellulare ammutolisce senza avvertire.
S. affonda di nuovo nella tazza del water.

D. guarda le due torri, dipinte di un giallo artificiale, malinconico.
Sta aspettando gli altri.
Sta aspettando L.?
Questa sera non vuole giocare, non vuole perdere.
Questa sera forse la sorprenderà, la accompagnerà a casa, le manderà un altro messaggio magari, penserà un po’di più a lei.
Bologna annota tutto, poi chiude anche questo stupido segreto in un cassetto ammaccato.

A. sta centellinando la sua vanità soppesando parole sempre migliori, sempre più vuote.
Lo stanno a sentire, lo apprezzano, difficilmente ribattono, e lui si fa trascinare dal suono delle sua voce, si proclama un intellettuale, un alternativo, informato sui fatti, ecco, così vede il mondo e le persone, l’arte, la  musica, e intanto dentro di lui c’è un ometto piccolo piccolo e scialbo che grida disperato AMATEMI.
Però A. ha quel sorriso incantevole ed ingannevole, un po’per sé e un po’per gli altri.
Si sente chiamare.
Sono M. e P. che arrivano da via Centotrecento per andare incontro agli altri.
Gli chiedono cosa farà dopo l’aperitivo.
Vado all’Irish, risponde A., sicuro.
P. dice ancora?
M. lo saluta e va via con l’amico.
A. stringe forte le labbra, si gira, sta zitto per un po’, prova ad ascoltare, ma tanto gli altri sono come al solito semplici e banali.
La compagna di facoltà gli si avvicina, gli chiede del libro che ha comprato, cosa a lui fosse piaciuto di più.
A. dice non mi ricordo, e beve un altro sorso di vino.

Le serate così sono da copione, e da teatranti compassati tutti recitano al meglio, senza eccedere e senza sbagliare quasi mai.
Solo ogni tanto il silenzio sgomita e infastidisce, ma magari è perché hanno la bocca piena, o i pensieri stanchi.
Come ogni brava rappresentazione, anche questa sappiamo da subito come va a finire, e quindi io non me ne sto qui a lapidare frasi su frasi.
Tutti fuori, allora, il vino è già stato versato, bevuto, annebbia, sorregge, rafforza, scalda, regala sorsate di coraggio e simpatia.
L’acciottolato davanti alle Sette Chiese non dà nemmeno più troppo fastidio.
Ridendo e forse barcollando un po’vanno tutti verso Piazza Verdi, dovrebbe esserci un concerto o qualcosa del genere.
Alla fine c’è un tizio che suona le percussioni, un altro la chitarra, qualcuno fa ruotare dei birilli per aria, uno lo imita ma preferisce delle palline, qualcuno gioca con il fuoco, c’è chi piroetta, chi canta, chi balla?, e altri che lasciano cadere bottiglie vuote e abbandonate.
Si mettono a chiacchierare fra loro, D. si avvicina a L., mentre P. non smette di rivolgersi agli inglesi, e poi arriva S.
Sembra più pallido, più magro, più triste.
Il sorriso è sempre lo stesso.
Mezz’ora prima lo aveva chiamato sua madre, e lui stava così, abbracciato al water, pensando a non pensare troppo.
Ciao aveva cinguettato sua mamma.
Hai mangiato?
Poteva esserci la guerra, fuori dalle finestre appese ai muri, ma per una madre mangiare è più importante.
La salute, i saluti, gli esami, qualche perché, due o tre come, poi ciao e ciao, e S. che mentiva bello e disinvolto.
Ma alla fine, un po’gli dispiaceva, perché non si inventava niente sui corsi che seguiva, o sugli esami che dava. Non si inventava niente sulle persone che aveva conosciuto, o sulle cose che aveva visto.
Però, si (ri)creava, si (ri)costruiva, e sentiva sua madre annuire mugghiando con gioia, così fiera, forse, da togliere il sorriso.
E così non era per la droga, o per l’aver sboccato pietosamente almeno sei volte.
Non era per il dolore allo stomaco, o al sapore di cartone in bocca.
Non era per il leggero tremore alle mani, o per gli occhi gialli.
Era per la mamma.

domenica 13 febbraio 2011

(sub)urban III.


M. spia dalla finestra qualcosa che si ostina a chiamare persone. Controlla l’orribile orologio a forma di cane che ha sulla scrivania; il libro è aperto a pagina centoquarantasette da due giorni.
Lei gioca con un indelebile ozioso, ormai scarico.
Sono le tre e venti, ed il sabato sembra essere soltanto un sabato.
Il computer riposa ronfante sul letto disfatto, in mezzo a dell’altro ciarpame quotidiano.
Per un momento M. invidia A. che vive da solo dalle parti di porta Castiglione.
Non ha stupidi coinquilini a fargli stupide domande.
Non ha colazioni imbarazzanti e noiose.
Non ha pranzi risicati e litigati, o pile di piatti che trasudano pigrizia e sporcizia.
Lui può fumare, ed ascoltare la musica che preferisce; può portarsi il mondo dietro, o lasciare il mondo fuori.
Può gridare e sgridare il vuoto, e troppo altro.
E invece a lei tocca quel trilocale con I., che si fa vedere anche troppo spesso, e parla anche troppo spesso.
Però costa così poco, e va bene così, no?
Alla fine, è vicina a Porta San Donato, vicina alla facoltà, al centro, alla vita.
Bella merda.
Scosta lo sguardo dal nugolo di testoline che si arrabattano laboriose inseguendo il frastuono del traffico, ipnotizzati come stormi di pensieri senza età.
Il pacchetto di sigarette vuote di fianco al libro è un cadavere senza importanza, per un momento potrebbero piangere di pietà.
Si alza, va verso la triste libreria IKEA e apre un piccolo astuccio giallo, dentro ci sono i soldi per la settimana. Le sono rimasti centoventi euro, com’è stata brava.
Conta di spenderne quaranta quella sera, e tenersene almeno sessanta per la spesa di lunedì.
Il resto, improvviserà.
Piroetta all’improvviso, felice, senza bene sapere come mai.
È una scossa, dispettosa, proprio dietro le spalle.
Sì, è felice.
Poi passa tutto, e si ritorna al resto che rimane intorno.
M. si risiede, e ricomincia a leggere pagina centoquarantasette.

D. insegue gli spettri dei doveri fra le corsie della Coop, disperatamente alla ricerca del latte fresco.
Ripassa ancora una volta gli appunti che ha sapientemente lasciato appesi al frigorifero.
Il pane, la frutta, la pasta, il passato, la pancetta a dadini, il sale grosso, il sapone per il bagno e per i piatti, una coscienza a posto, un bacio in più, più caldo, più dolce, più vero.
Gira l’angolo, ancora niente.
Potrebbe gridare.
Ma dove lo tengono il latte? Ruota la testa angosciato, il cestello di plastica scricchiola mestamente, guaisce, gli fa male alla mano.
Doveva prendere un carrello.
Comincia ad innervosirsi.
Potrebbe comprare un litro di latte fresco dal pakistano all’angolo sotto casa, ma l’ultima volta era scaduto da due giorni, e a N. era venuto il caghetto.
Sì va bene, molto divertente, ma poi te la racconto tutta per pulire il bagno.
Intravede le casse, in lontananza, il loro bip bip sembra una nenia rassicurante, tra  poco sarà fuori, inforcherà la bicicletta e ritornerà a nascondersi ancora per un po’.
L. non gli ha ancora risposto al messaggio, forse si è offesa.
Ma perché avrebbe dovuto? Non le ha quasi parlato per tutta la sera.
E forse è per quello che si è offesa, magari lui non avrebbe dovuto fare tanto il sostenuto.
Appena torna a casa le telefono, si dice.
Tanto ormai è fuori.
Però poi vede il latte.
Incastrato.

S. tiene le mani ben premute dentro le tasche del giaccone mentre attraversa la Piazzola, evitando la folla affamata di qualcosa esposto nelle bancarelle.
Guarda sempre bene i venditori, pronto a coglierne la disattenzione furtiva, magari per allungarsi e portarsi via qualcosa, come un paio di occhiali che perderà troppo in fretta.
Si sente chiamare, si volta pacatamente.
È G., un amico di M.
Lo saluta, gli dice oh bella.
S. sorride appena, non ha troppa voglia di parlare e di vivere. Deve ancora comprarsi le scarpe nuove.
G. sta blaterando, S. annuisce facendo finta di ascoltarlo, poi si decide a seguire i suoni che vengono sputati dalle labbra dell’altro, che gli fa oh senti noi stasera usciamo e siamo tipo io M. e magari anche quelli che c’erano ieri.
Tu che fai?
Che cosa dovrebbe rispondere S.?
Spendo i soldi che ho preso alla tizia di ieri, non mi ricordo come si chiama.
Poi vedo se riesco ad incrociare il mio spaccino.
Magari mi faccio una birra se mi avanzano dei soldi.
Passo da casa, prendo altri soldi.
Me ne fotto di te, del mondo, di M., di dio e di Bologna.
Si gratta il braccio, guarda uno straccio di cielo.
Boh senti voi ditemi qualcosa, magari vi raggiungo.
Poi si volta, e lascia G. e la Piazzola a consumarsi nel giorno.

A. decide di passare per casa, vuole cambiarsi, sembrare elegante per quella sera.
Apre il portone, l’eco delle scarpe sulle piastrelle dell’ingresso lo accolgono impietosamente.
La casa apparteneva a sua nonna, a cui però il cervello ha deciso arbitrariamente di fottersi, così, da un giorno all’altro.
Per un po’è andato a trovarla, la tengono a Villa Chiara, a Casalecchio. Poi, si è troppo vergognato.
Non certo per lui, ma per la donna che lo accompagnava per il centro quand’era piccolo, e passavano dal fornaio, la domenica, dopo la messa.
Lei gli comprava i biscotti al sesamo, buoni quelli, o magari erano al mais.
Non ha importanza.
Adesso lei osserva il vuoto che ha sempre in fondo agli occhi, e una lenta bava le imbavaglia il mento e la giornata, mentre ogni tanto qualche distaccato infermiere le poggia una mano in mezzo alle gambe, a vedere se se l’è fatta addosso.
Se magari succede, vedi quello che, disincantato ed eroico, dice cazzo, ancora, piano piano fra i denti.
E una volta A. gli ha urlato addosso tutta la sua rabbia, si è svuotato del’acido che gli bruciava troppo fra le palpebre, ha rischiato di essere buttato fuori.
Sul 20, prima di scendere in Saragozza, ha pensato di piangere, e poi ha cambiato idea.
Adesso non va più a trovare la nonna, e aspetta solo che gli dicano è morta, per storcere le labbra e dire oh, come se magari lei davvero se ne sarebbe potuta accorgere.
Adesso è la porta che gli dà il benvenuto, il salottino simpaticamente gli fa l’occhiolino, e la cucina è quasi in ordine.
E tutto si annega in un silenzio oleoso, furbo, crudele.
A. invidia M., per i suoi coinquilini, e per i loro pranzi, e le loro cene, e il loro parlottare continuo.
Loro possono parlare vivere litigare e rincorrere le giornate salutandosi tutte le mattine.
Ma adesso lui deve muoversi, o farà tardi e non concluderà niente nemmeno stasera.

Ecco di nuovo L., che si era persa fra una doccia ed un’attesa davanti al cellulare.
Ha riletto il messaggio troppe volte per non sapere che potrebbe farlo un’altra volta.
Ehi, mi querita, spero tu non ci sia rimasta male se non ti ho accompagnata a casa…ti va di uscire stasera con gli altri? sappimi dire ciao ciao.
All’inizio, L. si è arrabbiata.
È tutto quello che sai dirmi? Tutto quello che potresti darmi? Qualche parola, messe di qua e di là, in ordine, pulite, asettiche?
Poi si è sentita sollevata, perché evidentemente D. non ha ancora saputo niente di S.
Poi ha deciso d’ignorarlo, di fregarsene di tutto, di chiamare altri amici e di uscire con loro, di non bere troppo, di fare le cose per bene, magari non facendo tardi e svegliandosi presto il giorno dopo.
Poi il cellulare è suonato, e si è rotto il vetro dei pensieri.
L. riordina i frammenti con calma, temporeggia, poi risponde.
Pronto?
Ciao sorride una voce dall’altra parte.
Ciao D…come va…perché mi chiami? (non avere fretta, non avere paura, non arrabbiarti, non sospirare, non desiderare e soprattutto prova ad aspettare)
Ma niente, è che ti avevo mandato un messaggio però non hai risposto, allora ho voluto telefonarti…ti disturbo?
No (sì)…non stavo facendo niente di particolare (no, forse non disturbi per davvero)…ho letto il messaggio e…cosa avreste organizzato per stasera?
Ah, niente di che, alla fine volevamo andare a mangiare in un’osteria in via Borgonuovo con altri di facoltà che ospitano degli amici inglesi, e poi fare un giro per via Zamboni o per il centro…vieni?
(aspetta, aspetta…forse non vuole te, magari sei una presenza, un’amica, qualcosa, ma non vuole te, non per davvero).
Sì dai…a che ora? (troppa, troppa fretta, cazzo)

giovedì 10 febbraio 2011

(sub)urban II.


A quel punto lui si siede, e se ci fosse una canzone, potrebbe essere una qualsiasi, ma preferibilmente intrigante.
Posa uno sguardo distratto su chi gli sta intorno, conosce M., e se lo fa bastare.
Potrebbe (o dovrebbe) dire ciao, ma non lo fa.
Esordisce con e allora?, inclinando di poco la testa da una parte.
Adesso si pensa: ci siamo, è la solita cosa. Di bella famiglia, ma drogato, si redime, cambia il mondo, o il mondo cambia lui, ed il suo volto avrà colori diversi e più belli.
Non avete capito molto, allora.
S. è quello che è; non è di buona famiglia.
Non è una buona persona.
Questo lui lo sa bene, ma non lo sanno gli altri.
Gli ruotano attorno, come se orbitassero fra le pause delle sue parole.
E lui parla, parla, ma quante cazzate.
Quante cazzate, pensa sempre.
Comodo e presuntuoso, lascia che gli si rivolgano le solite domande a cui sa sempre come rispondere.
Ci mette poco a vedere che L. ha bevuto troppo, e che guarda sempre verso D. ogni volta che vorrebbe far ridere; ne cerca il consenso, e forse ha troppa paura di sbagliare.
D. sta al gioco che lui stesso ha creato, perché lui è così, gioca spesso e gioca sempre, ma magari poi perde.
A un certo punto, chissà perché, si ritrovano a parlare di politica, sentendosi pieni di belle parole e belle idee.
Ma, ehi, ecco, parla S., tutti zitti, e lui che sciorina lento e sicuro metafore imparate da qualcosa che ha letto una volta ed un po’di morale social-comunista.
Quante cazzate, pensa.
Ma, ehi, ecco, tutti approvano, magari ribattono, ma si lasciano convincere, piano piano.
Sarà l’alcool.
Sarà il giorno.
Sarà il posto.
A. non ci crede troppo, a dire il vero, ma non gli danno troppo retta, perché spesso si impone per capriccio o per l’amore che ha della sua voce.
Si scivola via nella notte fredda, si fanno  le tre, si beve ancora per un po’.
D. sorride sempre, L. lo cerca sempre, ma non lo trova.
S. potrebbe conquistare il mondo con la sua pelle tesa e gli occhi gialli.
P. lo ascolta ancora; è arrivato e subito sapeva cosa dire e cosa fare. Lui sì, avrà tanti amici.
M. pensa a quello che pensava anche prima, solo un po’più offuscata e confusa dai bicchieri vuoti che si è lasciata indietro.
È un venerdì sera, e ci sono le solite luci ed i soliti colori, magari non proprio gli stessi odori.
Dopo mezz’ora S. si sta scopando L., che non sa perché ha accettato lui l’accompagnasse a casa;
 e si è fatta riempire la testa di quelle sue parole troppo piene e troppo vuote, e si è fatta riempire il naso del profumo che usa, e si è fatta riempire la bocca di baci sapienti che l’hanno fatta sdraiare sul suo letto di via Mascarella.
D. non lo ha capito che se l’avesse portata lui forse sarebbe stato diverso, ma D. gioca spesso e sempre, ma questa volta ha perso.
A., sul notturno che percorre i viali abitati dal silenzio e visitati da qualche puttana e tanti naufraghi, pensa che domani non vivrà un’altra serata così schifosa.
Degli altri, P. ed M., dimentichiamocene per ora, e dormiamoci su.

S. si sveglia presto, fra le sue lenzuola in una sua giornata. Riflette bene su cosa indossare, e sa che andrà a comprarsi le scarpe nuove, quelle belle, che ha intravisto ieri passando davanti Pull & Bear. I soldi ce li ha; li ha presi dalla borsa di L., dopo averla lasciata addormentata (?) verso le cinque del mattino.
Come prima cosa, mette bene in ordine le priorità.
Fa una lista mentale, e poi la perde subito.
Cucchiaio, limone, accendino, dove ho messo la bustina?, nei pantaloni.
È un attimo, più o meno.
La luce della fiammella fa qualche piroetta, com’è languida e sensuale, una dolce amante per segreti più nascosti.
La siringa, cazzo, bisogna sterilizzarla.
Fai bollire l’acqua, si smaglia tutta la routine, è snervante.
S. tamburella con le dita sul tavolo color anonimo.
No no così non va.
Toglie l’acqua dal pentolino, la mette in una tazza, imposta il microonde, due minuti, TING, la pappa è pronta.
Qualche colpetto sull’incavo del braccio, un laccio di gomma ben stretto.
Llllà, com’è tutto tanto semplice.
Buon appetito, S.

Da un’altra parte, D. prende in mano il cellulare, vede che sono le undici e quaranta, avrebbe dovuto alzarsi per studiare, ma è sabato, è ora di riposarsi.
Da cosa?
Indeciso sul da farsi, comincia a scrivere un messaggio a L.; riparte un paio di volte, non lo convincono per davvero le parole, pensa pure di rinunciare, poi no, arriva in fondo e lo invia.
Se ne pente per qualche momento, poi si alza e va a pisciare.

L. sente il cellulare vibrare sul comodino. Non vuole scollare il viso dal cuscino, le tempie le pulsano, ha un sapore amaro in bocca.
Le gambe sono pesanti, doloranti.
Tutto odora di vecchio e patetico.
Cos’ha vissuto quella notte, non lo vuole veramente sapere.
Se D. lo venisse a sapere?
Stupida, lo saprà di sicuro.
Ma lui S. non lo conosce.
Glielo dirà M.
Che troia, non sa stare zitta.
M., una troia? E tu allora?
Ero ubriaca.
Troppo comodo.
Ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca ma quando lo hai fatto entrare lo sapevi o no quello che stavi veramente facendo? ma ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca e adesso basta.
Il cellulare vibra ancora, lei con uno sforzo incredibile si allunga sopra il piumone unto di vergogna e cerca di afferrarlo, ma le cade per terra.
Mormora qualcosa, poi si gira dall’altra parte, e ricomincia a dormire.

A. si sta facendo la doccia, per sciacquare via un disagio che da tanto lo accoglie ogni volta che sposta le lenzuola. Il balsamo è finito.
La cosa lo innervosisce profondamente.
Scosta la tendina di plastica, esce nudo e fradicio a vedere se ce n’è dentro al mobiletto sopra il water. Magari adesso entra qualcuno e lo trova così, inconsapevolmente fragile, solo e triste.
Però trova il balsamo e ricomincia a lavarsi.

P. come prima cosa aspetta che il caffè sia pronto, poi accende il computer e si connette a Facebook.
Controlla il numero degli amici, ottocentoventinove, e la cosa lo rincuora.
Vorrebbe aggiungere S., ma all’improvviso si rende conto con orrore che non sa come si chiami.
Cazzo, sussurra.

M. non fa niente di davvero particolare, quindi possiamo tralasciare la sua vita per qualche riga ancora.

C’è qualcosa di incredibile nel modo in cui chiunque viva la propria città.
Come se non fossero che mattoni messi lì apposta, con grande cura, ma senza troppo stare a pensarci.
Così passeggi per vie che conosci intimamente, le possiedi sotto le scarpe, le lasci indietro calde e spaesate, pronte ad accogliere ancora centinaia e centinaia di amori sciocchi e superficiali.
Poi c’è questo sole freddo con la sua luce che ridisegna le ombre ed i contorni e tutto sembra inutilmente felice.
Insegue pigramente volti che incontrano volti, vite e vite che si ritorcono e si abbandonano al cemento, ignorandosi placidamente e con orgoglio.
Magari prendi un caffè, o una pasta, o te ne stai come un coglione ad aspettare l’autobus; poi forse ti cali una dose di distacco calcandoti bene nella testa la musica che tieni segregata nel taschino, e che ti somministri appena hai paura che la folla ti ingoi senza pietà.
Potresti scendere le scale, o salirne altre, suonare i campanelli di migliaia di sconosciuti, o aspettare il TLAK confortante di un mondo che ti si apre docilmente.
Oppure ti fai il nodo alla cravatta, ti allacci le scarpe, sputi un chewing-gum, ti accendi una paglia e ti si coagulano i i sogni i propositi le promesse e le parole in fondo alla testa e sulla punta delle labbra.
Se sei fortunato, baci, ami, abbracci, pranzi con qualcuno, o ti rifugi in un libro, lasciando che sia la carta ad animare vite migliori o peggiori della tua.
A. entra da Feltrinelli, si perde a guardare i titoli dei libri, con la coda dell’occhio intravede una che è in corso con lui, riccia, occhi scuri, pieni di tutto.
Le si avvicina, spia i nomi degli autori che sta guardando, lei si volta, lo riconosce, lo saluta ehi ciao, lui ricambia con un sorriso, indica il libro che ha in mano, dice è molto bello.
A lei si accendono le labbra, scopre un poco i denti, ah io non lo so, me lo hanno consigliato, mi hanno detto che è molto interessante e molto poetico.
A. si abbandona a una declamazione di sapere critico; parla di poesia, di estetica, di arte.
Lei lo ascolta interessata, risponde, poi fa è tardi, senti mi accompagni che finiamo di parlare?
A. la segue trotterellando, le offre una sigaretta, lei non fuma, lui si accende una Lucky Strike morbida e soffia il fumo nemmeno fosse un consumato attore hollywoodiano.
Alla fermata dell’autobus davanti al Mc Donald’s lei monta su un 13 e lo saluta con la mano, dicendogli che quella sera per le sette dovrebbe essere al Caffè Zamboni con qualche amica per un aperitivo per poi magari andare all’Irish. Vuoi venire? gli dice poco prima che le porte dell’autobus si chiudano con uno sbuffo.
A. dice certo, alle sette allo Zamboni.
Mentre si siede in Piazza Nettuno, davanti alla Sala Borse, con tutte quelle foto di morti di guerra a guardargli le spalle, pensa a quanto facesse cagare l’autore di cui ha tessuto le lodi.

mercoledì 9 febbraio 2011

(sub)urban I.


C’era un’aria cattiva, un’aria silenziosa.
Era come se il mondo avesse deciso di condensarsi dietro le ombre, a grattare sui vetri.
Il freddo ti entrava nella testa, nelle vene, giù, giù, sotto il cuore.
A. tira su la lampo, osserva e si lascia osservare. Sa di avere i capelli sporchi, non gli interessa.
Il frastuono del traffico si arrampica per i muri di palazzo Enzo; il Nettuno è sempre indifferente, a lui di queste cose frega davvero niente.
Ci sono le solite luci, i soliti colori, magari non proprio gli stessi odori.
Gli si avvicina D., e come sempre irrompe nelle vite degli altri senza mai chiedere il permesso o pulirsi le suole dai minuti che calpesta.
Allora, gli dice.
Stiamo decidendo dove andare, tu hai qualche idea?
Tanto lo sa già come finirà, A.
Andranno a sedersi in qualche pub, o magari gireranno ancora per un po’; qualcuno farà su, forse, ma non ci si può davvero contare. Vorrebbe alzare uno sguardo pieno di risentimento su D., quel gran coglione. Non si rende conto che stanno vivendo le vite degli altri? È tutto uguale, appiccicoso.
Poi però ci ripensa, lui non ne ha colpa.
Andiamo all’Irish, dice.
Ma muoviamoci, sennò non troviamo posto.

L. sta scegliendo credo la terza maglietta, tanto è già in ritardo e continuerà ad esserlo, maglia o meno.
Le butta alla rinfusa sul retto, sembrano le sue idee nei giorni di pioggia più fitta.
Il computer ronza dispettoso sul tavolo, rimarrà acceso oppure scoppierà l’universo e allora si degnerà di spegnersi.
Qualche ora prima D. le aveva mandato un messaggio, diceva andiamo all’irish vieni dai.
A L. piaceva stare con D.; a L. piaceva D., credo, ma non ha troppa importanza.
L. sta in via Mascarella, un appartamento con due sue amiche di Firenze che sono salite con lei per studiare qui.
Getta uno sguardo distratto fuori dalla finestra: il venerdì si stende ozioso e senza troppe moine, è un animale bravo, obbediente, senza grandi pretese.
Sceglie il cardigan grigio e sotto una maglia un po’scollata, nera. I jeans, sono i soliti; le scarpe, pure.
Esce, non saluta, perché tanto è a casa da sola, le altre due sono scese dai genitori per il finesettimana. La porta cigola, Bologna le chiede di fare meno casino.

Si ritrovano tutti seduti intorno ad un tavolo per una riunione chiassosa, nel religioso torpore imposto dalla birra e dagli sguardi di pietra e di acqua insieme.
Ridono e ridono, le cazzate si gonfiano nell’aria, sono bolle di sapone che scoppiano nel fumo della sala fumatori, lasciandosi dietro solo il ricordo di quello che sono state.
L. sa di aver bevuto abbastanza, ma non si accontenta, vorrebbe qualcosa di più.
D. sa di piacerle, vuole giocarsi la faccia e provare il tutto per tutto.
A. ogni tanto si zittisce, fa lo scontroso, si chiude le braccia e la bocca per poi ricominciare tutto da capo.
C’è anche P., che continua a far girare lo sguardo intorno, magari vede qualcuno che conosce e potrà dimostrare agli altri e a se stesso che ha tanti amici.
M. non aveva voglia di uscire, ma eccola, è lì con loro, e allora smettila di lamentarti. Vorrebbe baciare baciare baciare, e forse fare l’amore, oppure no, magari basta pure una scopata, e ti saluto malinconia.
C’è un innocente squallore in quest’istantanea di vita, e pure un po’in quei loro sogni magari nascosti o magari preconfezionati, da scaldare nel microonde.
Potrebbero essere i protagonisti di carta di romanzi da edicola, o di qualche capolavoro intramontabile, che disegna vite e cornici come se fossero banali ovvietà.
Ma a loro queste cose non passano nemmeno per la testa; forse solamente ad A., perché a lui non basta la vita, a lui non basta Bologna.
A lui non basta svegliarsi la mattina, lavarsi via i sogni della notte ed abbandonarli nell’asciugamano, sfregarsi i denti come al solito, vestirsi e poi saltare sul 32, che puzza sempre, cazzo, anche quando ci sono dieci persone.
Scende, cammina, si gira, saluta, sorride, bla bla bla, e lo sappiamo già.
In aula, ascolta, prende appunti, poi magari smette, può ricominciare se ne ha voglia, scambia parole e opinioni spicciole, guarda sempre le ragazze che si alzano e vanno da qualche parte, e pensa magari le parlo, la saluto, la impezzo con un pretesto qualunqu(ista)e, e così lei dirà che persona interessante.
Però sono solo pensieri.
Si legge, si comprime il tempo e si scola la pasta, poi arriva la sera, il momento peggiore.
Si vorrebbe sempre fare qualcosa di diverso, ma alla fine si fa sempre lo stesso, non cambia molto, e sembra potrebbe non cambiare mai.
Almeno una volta al giorno vuole fare l’intellettuale, si mette a parlare, declamare e litigare, perlopiù con D., che non sopporta proprio quelli dalla retorica facile e le idee di nebbia.
Intanto L. si è accesa una sigaretta, e soffia via del fumo insaporito dalle sue labbra, che incantano; sono sospese nel posto giusto, sotto quegli occhi che si ritrova, che ti si piantano dentro, a forza.
Vorrebbe poter dire una cosa da lasciare D. a bocca aperta, spogliarlo della sua sicurezza, di quel sorriso che gli taglia la faccia come una smorfia, e che affascina sempre.
E invece fuma, e cerca di far finta di ascoltare P., che raffazzona quattro parole e ride compiaciuto.
M. a un certo punto alza la mano, saluta lontano.
Si avvicina un ragazzo, le sorride, sembra bello, ma poi dipende.
Si chiama S., si droga, e questo dovrebbe bastare.

giovedì 3 febbraio 2011

Apocalisse IV (Ende)


Si spegne il mondo, il mondo è in fiamme.
Arde il mondo, il mondo grida.
Io passeggio insolente fra le strade di cenere, incurante della pioggia arida che inibisce i sorrisi ed i passi che sollevano nubi sciocche di polvere dolorante.
Con un dito disegno un pallido sorriso su un muro di cinta, sulla punta delle labbra nascondo fiumi di lettere e segreti, stordendomi il cuore con qualche ricordo che avvampa, di qua e di là.
Passa un cavallo, bellissimo, in fiamme.
Lascia dietro di sé un’ombra di fumo rosso, una virgola arruffata.
Cammino misurandomi l’anima in centimetri di stanchezza, come se non avessi di meglio da fare.
Guardo gli alberi tendersi al cielo, come se pregassero.
Le ultime foglie secche danzano al suono di una brezza senza perché; sembrano stiano battendo i denti, per il freddo.
Mi avvicino ad un tronco, vi appoggio l’orecchio.
Non so perché, ma forse vorrei sentire da lui qualcosa che mi sveli un mistero insoluto, una domanda da far inginocchiare il mare e impazzire il vento.
Ma lui se ne sta lì, muto, a salmodiare sui lapilli ardenti che sono le sue lacrime e le sue stigmate.
Cerco una nuvola, in cielo.
Mi accoglie l’occhio buio dell’indifferenza, e all’improvviso, ecco piovere pagine e pagine bianche.
Le parole si bagneranno tutte, s’inzupperanno, non lasceranno che qualcuno ancora le sporchi con i suoi sguardi avidi e mollicci, con quelle dita di fango, e la lingua di pece.
Sono ostie bianche di carta, i corpi di mille cristi che danzano nel nome dell’ignoranza e del digiuno, spandendo nel silenzio l’odore flebile della paura e delle lacrime.
All’improvviso, mi pare che un canto si profili dietro lo scrosciare di lettere.
Un minareto crolla, e dentro, sotto mattoni che sembrano croci, si stringono i figli di tutti gli dei, anche quelli più superbi, e piangono in coro gli amori che hanno lasciato nelle tasche dei ricordi, scambiando la vita per una fede da fast-food.
Un bambino penzola a testa in giù da un’arcata imponente.
Tiene fra le dita paffute e sporche un biglietto, che dice qual è il volto del domani?, ma, poverino, non sa leggere, perché gli occhi gli si sono cementati di luce ignorante.
Geme, piano piano, chiede dimmi il nome di dio dimmi il nome di dio dimmi il nome di dio.
Gli si avvicina un corvo, mormora piano qualcosa, poi gracidante scappa via, terrorizzato.
Il bambino comincia a gridare, via, via, VIA VATTENE VIA, ma è troppo tardi.
Si contorce, piccola squallida serpe, cede il muro, tutto crolla, in un istante.
Si levano lapilli di miseria, e nulla più.
Trascino stanche le suole al ritmo cadenzato dei miei respiri; ma sono così stanco.
Mi guardo le punte dei piedi, non le riconosco.
Cammino da tempo, ma non ho mai cercato di arrivare alla fine.
Così è adesso che tutto mi appare così strano, come se lo avessi sempre saputo, o me lo fossi soltanto dimenticato.
Un uomo mi tira per la manica, mi dice qual è il nome di dio?, poi fa una capriola, e scoppia a piangere.
Ha il mento unto di saliva, gli occhi lividi per l’insonnia, e puzza come i deserti in fondo al cuore.
Mi guardo il braccio, una macchia invisibile di miseria è come un’epidemia celebrale, un’isteria, ed inizio a carezzarmi la coscienza, come si fa con i cagnetti stupidi ed affettuosi: no, non sarà così.
Non sarà con la bava alla bocca.
Mi trascino più in fretta, sono un verme nell’intestino del mondo, una tenia impacciata che balla uno swing meditabondo.
Mangio me stesso, e divoro tutto il resto.
Per certi versi, grufolo.
Una donna corre, nuda, le mani sanguinanti, il ventre sfondato, grida ho abortito le mie paure ho abortito le mie paure.
Un oceano di feti si ammassa sulla banchina di un porto macilento, e in lontananza un organetto da circo accompagna dieci piccoli clown, ognuno con una rivoltella.
Il cavallo.
Bang.
L’albero.
Bang.
Il bambino.
Bang.
L’uomo.
Bang.
La donna.
Bang.
E gli altri cinque stanno a guardare, mentre turbe di cani latranti si avventano sulle loro carni molli, sbranano e sbranano, e loro zitti, nemmeno un grido. Soltanto, stanno lì, e aspettano.
Io svolto un angolo immaginario, scuoto la polvere che ho nella mente, e penso che sto pensando che non vorrei mai dover capire.
Sento uno scalpiccio furente, il cuore mi balza in gola.
Passa, un cavallo, bellissimo, scheletrico.
Un denso fumo nero avvolge i suoi sbuffi, digrigna i denti in una smorfia di dolore ed odio, e di terribile pietà.
Mi getta a terra.
Mi domando, qual è il nome di dio?
I cani portano trottando la loro fame immonda.
Un vecchio mi striscia vicino, mi sussurra, lo sai qual è il nome di dio?
E in quel momento capisco, all’improvviso, con orrore, che lui lo conosce.
Io mi alzo di scatto, afferro una pietra, e lo colpisco, una due tre quattro cinque sei sette otto volte.
Poi ancora.
Ancora.
Ancora.
Alla fine, non rimane troppo da fare.
Mi siedo di nuovo a terra, cerco una sigaretta che so di non avere.
Ecco il primo di voi laidi bastardi. Venite, venite, ce n’è per tutti.
quando il primo mi strappa via la carne
non è come me lo sarei aspettato.
Per un momento, mi viene da ridere.
Lo sapete, voi, qual è il nome di dio?






poi comincio a gridare.