giovedì 17 febbraio 2011

(sub)urban IV.


C’è un cinguettare ovattato fatto di plastica fredda; P. apre immediatamente la pagina di chat su facebook, mordendosi leggermente il labbro mentre legge oh noi stasera si va all’osteria solita vieni?, e provando una gioia gocciolante che scivola giù lungo la schiena.
Chi c’è, chiede, ma lo sa già.
Vuole allungare un po’la conversazione solo per sentirsi più voluto, più amato.
Per un poco ce la fa, ma alla fine si spegne tutto, riassumendosi in un bianco appiccicoso fatto di miseria quotidiana.

Claudicando grottescamente, la giornata scivola verso la sera, artigliando di freddo i palazzi timidi ed instupiditi.
C’è ancora quell’aria strana, cattiva, come se all’improvviso dovesse sentirsi un boato di risate stanche e spaventate.
C’è una vecchia con pochi denti e troppi anni che mendica con un cartello unto, aspettando che qualcuno sborsi centesimi di compassione.
Gli alberi, lungo la strada, si spingono in punta di piedi, vogliono acchiappare qualche angelo, magari, e mangiare un po’della sua felicità cristallina.
S. ha la mente sospesa in un vuoto limaccioso, e cammina su di un cemento ovattato, morbido.
È passato da poco dal suo spaccino, gli ha preso due grammi, ma aveva i soldi per pagarne uno solo.
Si sono dati appuntamento per quella sera alle due e venti in una traversa di via delle belle arti.
E intanto la grammatica dei pensieri di S. lascia libere virgole e virgole senza nome, mentre lui si compiace della sua pochezza e della sua magnifica fortuna.
Ad un certo punto, si fa strada, a fatica, un’immagine.
Si colora, piano piano, goffamente, qui e là, e poi, ecco, è una faccia, la conosce, l’ha vista, l’ha baciata.
È quella di ieri (era ieri?), quella che…ma sì…quella…hm.
All’improvviso, barcolla un attimo, ed un sorriso ebete gli si stampa in volta.
Il suo cervello biascica lettere disastrate, e lui si guarda, distanti, le mani.
Poi, tutto passa.
Non si fa domande, e se ne va.

Passano le macchine, BRUMBRUM, e batti le mani a scandire i secondi come si fa sulla giostra di quando eri bambino. Ti fotti la coscienza per qualche briciola di luce, e magari ricominci tutto da capo, senza nemmeno rendertene conto.
Sono quei momenti che dai per scontati, che ti piacciono intimamente, e che vorresti rifiutare con forza.
Raderti, pulirti la bocca, soffiarti il naso, aspettare il verde per passare, guardare in alto e ritrovare il cielo, per terra il cemento e la merda, la gente, quanta gente, ma sempre e solo le solite facce, belle quelle; sputeresti su molti di loro, ma non puoi farne a meno.
Senza, cosa saresti?
Dove andresti?
Allora paghi ancora una volta, un altro giro, e sempre su quel bel cavallino, quello con gli occhi blu, e sì, sì, ancora, e ancora, lanci tutto all’aria.
La morale, la testardaggine, l’orgoglio.
Metti in tasca il tuo fattore evolutivo, conservalo per i giorni di pioggia, e que sera sera.
E così ecco A. caparbiamente avvinghiato a un autobus epilettico che odora di ogni sporco e di ogni miseria.
In viale Berti Pichat sale un uomo, un vecchio, ha i capelli unti, di un colore che sa di vecchiaia.
Le unghie sono lunghe, nere, le mani coperte da uno strato di miseria insalubre.
Ha vestiti sformati, grandi, luridi.
La barba è incolta, stanca, abbandonata.
Si continua a stringere il labbro inferiore, magari un tic.
Gli occhi, vuoti, ma attenti, sono grandi, sciocchi.
Innocenti?
Banale, puoi fare di meglio.
Ma il vecchio adesso piange, da solo, senza emettere un suono, senza guardare nessuno, solo il niente che ha davanti a sé.
L’autobus è pieno, e tutti sono così impegnati a ripetersi a memoria le filastrocche di tutti i giorni che quell’uomo può starsene così, come un coglione, a piangersi addosso, a sputare fuori lacrimoni lenti e patetici, che rigano il volto sudicio e crepato.
A., scendendo, gli passa davanti.
Il vecchio gli appoggia uno sguardo fradicio addosso.
Poi le porte si richiudono, l’autobus cigola, trotterella via, tenendosi tutto dentro.

L. non sta scegliendo la terza maglietta.
Non ha la città che respira sommessamente fuori dalla finestra.
Non ha il computer ronzante in attesa della fine dell’universo.
Non ha più il piumone zozzo di vergogna.
Non ha il cellulare sotto mano, non un sorriso da prestare, non ha un pensiero da inseguire.
L. ha uno specchio, e ci si perde dentro.
Ha un po’paura.
Ha un po’di rabbia.
Ha un po’di freddo, che la morde fra il cuore e il collo.
Ha un po’di odio, che gratta furioso dietro la nuca, ed urla qualcosa ma lei non lo ascolta.
L. scuote la testa, si sposta una ciocca di capelli senza troppa grazia, afferra il giaccone ed esce.

M. apre il portone, ha appena litigato con I. perché i piatti sono rimasti da lavare.
Ma non sarebbe toccato a lei.
Invece ti dico di sì.
Dai, lo faccio domani che devo uscire.
È sempre così.
Non è vero, non esagerare.
E il bagno, allora?
Quello dovevi pulirlo tu giovedì.
Non l’ho fatto?
Guarda che se non alziamo la tavoletta non vuol dire che non devi pensare non ci sia nient’altro da fare.
Sì ma che c’entra?
Devo uscire, ci pensiamo domani.
Troppo comoda.
Ma vaffanculo.
Però questo se l’era tenuto per sé, lo aveva nascosto sotto la lingua, e ne succhiava lentamente l’amaro, trasportata come un’ombra in un sabato a Bologna.

S. si alza pallido da dentro il water.
Poi ci ripensa e ricomincia a vomitare.
E siamo a tre.
Le mani gli tremano, le gambe gli tremano.
È entrato in casa, la testa è come se gli fosse scoppiata, barcollando ha rischiato di cadere per terra.
Si è trascinato verso il bagno, e poi ha iniziato a sputare tutti i suoi peccati.
Quando i conati rallentano, prende il cellulare, richiama l’ultimo numero.
Pronto?, chiede una voce secca, bastarda.
Ma…ma che mer…che merda mi hai venduto? gorgoglia S.
La solita, gli viene risposto con troppa semplicità.
Io non…non te lo pago, il grammo…
Silenzio, per un attimo.
S. pensa che potrebbe vomitare di nuovo.
Poi: no non hai capito un cazzo, ok? Tu mi paghi e basta, visto che già altre volte ti ho fatto il piacere di aspettare troppo perché tirassi fuori i soldi. Hai capito, stronzo?! Se non mi dai i miei soldi ti spacco il culo, e poi vado dalla Digos. Chiaro, cazzone?
Il cellulare ammutolisce senza avvertire.
S. affonda di nuovo nella tazza del water.

D. guarda le due torri, dipinte di un giallo artificiale, malinconico.
Sta aspettando gli altri.
Sta aspettando L.?
Questa sera non vuole giocare, non vuole perdere.
Questa sera forse la sorprenderà, la accompagnerà a casa, le manderà un altro messaggio magari, penserà un po’di più a lei.
Bologna annota tutto, poi chiude anche questo stupido segreto in un cassetto ammaccato.

A. sta centellinando la sua vanità soppesando parole sempre migliori, sempre più vuote.
Lo stanno a sentire, lo apprezzano, difficilmente ribattono, e lui si fa trascinare dal suono delle sua voce, si proclama un intellettuale, un alternativo, informato sui fatti, ecco, così vede il mondo e le persone, l’arte, la  musica, e intanto dentro di lui c’è un ometto piccolo piccolo e scialbo che grida disperato AMATEMI.
Però A. ha quel sorriso incantevole ed ingannevole, un po’per sé e un po’per gli altri.
Si sente chiamare.
Sono M. e P. che arrivano da via Centotrecento per andare incontro agli altri.
Gli chiedono cosa farà dopo l’aperitivo.
Vado all’Irish, risponde A., sicuro.
P. dice ancora?
M. lo saluta e va via con l’amico.
A. stringe forte le labbra, si gira, sta zitto per un po’, prova ad ascoltare, ma tanto gli altri sono come al solito semplici e banali.
La compagna di facoltà gli si avvicina, gli chiede del libro che ha comprato, cosa a lui fosse piaciuto di più.
A. dice non mi ricordo, e beve un altro sorso di vino.

Le serate così sono da copione, e da teatranti compassati tutti recitano al meglio, senza eccedere e senza sbagliare quasi mai.
Solo ogni tanto il silenzio sgomita e infastidisce, ma magari è perché hanno la bocca piena, o i pensieri stanchi.
Come ogni brava rappresentazione, anche questa sappiamo da subito come va a finire, e quindi io non me ne sto qui a lapidare frasi su frasi.
Tutti fuori, allora, il vino è già stato versato, bevuto, annebbia, sorregge, rafforza, scalda, regala sorsate di coraggio e simpatia.
L’acciottolato davanti alle Sette Chiese non dà nemmeno più troppo fastidio.
Ridendo e forse barcollando un po’vanno tutti verso Piazza Verdi, dovrebbe esserci un concerto o qualcosa del genere.
Alla fine c’è un tizio che suona le percussioni, un altro la chitarra, qualcuno fa ruotare dei birilli per aria, uno lo imita ma preferisce delle palline, qualcuno gioca con il fuoco, c’è chi piroetta, chi canta, chi balla?, e altri che lasciano cadere bottiglie vuote e abbandonate.
Si mettono a chiacchierare fra loro, D. si avvicina a L., mentre P. non smette di rivolgersi agli inglesi, e poi arriva S.
Sembra più pallido, più magro, più triste.
Il sorriso è sempre lo stesso.
Mezz’ora prima lo aveva chiamato sua madre, e lui stava così, abbracciato al water, pensando a non pensare troppo.
Ciao aveva cinguettato sua mamma.
Hai mangiato?
Poteva esserci la guerra, fuori dalle finestre appese ai muri, ma per una madre mangiare è più importante.
La salute, i saluti, gli esami, qualche perché, due o tre come, poi ciao e ciao, e S. che mentiva bello e disinvolto.
Ma alla fine, un po’gli dispiaceva, perché non si inventava niente sui corsi che seguiva, o sugli esami che dava. Non si inventava niente sulle persone che aveva conosciuto, o sulle cose che aveva visto.
Però, si (ri)creava, si (ri)costruiva, e sentiva sua madre annuire mugghiando con gioia, così fiera, forse, da togliere il sorriso.
E così non era per la droga, o per l’aver sboccato pietosamente almeno sei volte.
Non era per il dolore allo stomaco, o al sapore di cartone in bocca.
Non era per il leggero tremore alle mani, o per gli occhi gialli.
Era per la mamma.

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