Si spegne il mondo, il mondo è in fiamme.
Arde il mondo, il mondo grida.
Io passeggio insolente fra le strade di cenere, incurante della pioggia arida che inibisce i sorrisi ed i passi che sollevano nubi sciocche di polvere dolorante.
Con un dito disegno un pallido sorriso su un muro di cinta, sulla punta delle labbra nascondo fiumi di lettere e segreti, stordendomi il cuore con qualche ricordo che avvampa, di qua e di là.
Passa un cavallo, bellissimo, in fiamme.
Ma adesso è ora di finirla, penso.
E comunque ho sempre pensato troppo.
Inganno il tempo quel tanto che basta per dimenticarmi di parlare ancora, per non blaterare di ovvietà quando sarebbe troppo tardi.
Ehi sta finendo il mondo.
Però ci sono queste immagini, che non capisco, che mi spaventano, vorrei una sottana a cui aggrapparmi come nelle fotografie sbiadite di una volta.
Per certi versi, è una cosa che credo di sapere già.
Si può ignorare il presente, insidiare la vita, portarla in un vicolo, e stuprarla con tutte le forze.
Puoi essere il più bastardo dei figli di puttana, o un gracile ometto dal buffo nome, con un amore segreto agli angoli della bocca.
Puoi arbitrare le vite degli altri, sputare figli nel caso, regalare fiori e tradire amanti e mogli, adescare le tue paure, disegnarti una fede al dito, o soltanto desiderare di avere le tette più grosse.
Puoi ammorbare i fogli di insensatezze, mentendo a te stesso, dicendoti bravo, bravo, applaudisciti, rotolati, un cagnolino, bravissimo, avrai un biscottino, una statua, presiederai gli stati, ricorrerai sui giornali più spesso dell’amore e dei silenzi.
Ma, ehi, sta finendo il mondo.
Niente foto, prego.
Dovreste spegnere i cellulari.
Fate poco casino, che dio c’ha mal di testa, e vuole riposare.
Si è stancato, si è stancato, e i bambini lo canzonano, pappappero, dio non ce la fa più.
E quel cavallo, quel cavallo, in fiamme.
L’ho immaginato, l’ho visto, l’ho ignorato, l’ho inseguito, l’ho perso e l’ho ucciso.
Lo mangerò, lo porterò con me, lo nasconderò ben stretto nel cuore.
Ho chiuso gli occhi, sono morto e risorto.
Ho scommesso con il cristo gesù, lui ha barato, lo so, il mazzo era truccato.
Per mondare la mia lingua volgare mi è stata tagliata di netto, ZAC, esposta sul bancone del macellaio.
Mi faccia un etto di pettegolezzo, il resto lo decida lei.
Corro, le mani premute in faccia, il sangue mi gorgoglia vorace da in fondo alla gola.
Mi scivolano via le parole, cerco di raccattarle, forse potrei ancora voler soffermarmi su un sentimento che non ho ben assaporato.
Ma le mie papille gustative ardono e scoppiettano come pop-corn, insaziabili e spaventate.
Le mani, le mie mani, si stanno lordando delle mie maldicenze.
Mi tremano, bruciano, fanno così male.
Per mondare le mie paure, mi strappano gli occhi, ZAC, rivenduti come preziosi ad un cieco che non li riconosce, e li getta via.
Che faccio, che faccio adesso?
Ehi, non lo sai che sta finendo il mondo?
Stai zitto, cazzo, non vedo niente.
Annuso fremente l’aria intorno, il vento fa il ritroso, si vergogna, non mi vuole raccontare niente.
Il sibilo dei rami secchi mi ricorda un sogno fatto da bambino, e che mi ha accompagnato troppo a lungo.
Ormai le labbra mi si sono gonfiate, pulsano, dolorose.
Ho paura ad accarezzarmi lì dove c’erano gli occhi.
Tremo tutto, spasmodico, come un folle.
Comincio a correre.
Il fumo si abbarbica per le narici, mi gratta furioso dietro la testa, e se potessi, piangerei ancora.
Non so dove stia andando, ma non voglio fermarmi.
Piano piano sembra tutto farsi più confuso, pateticamente dolce.
La prosa si strappa i vestiti, nuda si esibisce volgare in piroette e grossolane vaccate.
Non voglio più dover pensare a tutto questo.
Cosi corro, e corro ancora più forte.
Se potessi, si, direi di essere bellissimo.
Si, sarei così bello, cosi fottutamente bello.
Magari, mi dimenticherei di tutta questa sporcizia, non annegherei nel fango.
Sento il petrolio ribollirmi nel cuore, pulsato troppo veloce fin dentro la mia testa.
Inciampo, cado, ruzzolo, e di nuovo il dolore ride istericamente sino a sputare sulla mia rancida vergogna.
Brucio, si brucio.
Ardo, le mie grida si spandono, si spezzano, esplodono in frammenti scomposti.
Lentamente, mi abbandono ancora un poco al buio lucido e scivoloso.
Adesso, in bocca, ho un sapore di morte e di vetri sporchi.
Nei polmoni si attorcigliano nugoli di sospiri.
Mi contorco, il terriccio mi invade ferite invisibili.
Sento che qualcuno mi guarda, mi guarda e non capisce.
Forse, è triste per me, vorrebbe versare qualche lacrima anonima, da copione.
Magari si stropiccia le mani, perché non può stropicciarsi l’anima.
Ma, ehi, è la fine del mondo, no?