lunedì 31 gennaio 2011

apocalisse 3.

Si spegne il mondo, il mondo è in fiamme.
Arde il mondo, il mondo grida.
Io passeggio insolente fra le strade di cenere, incurante della pioggia arida che inibisce i sorrisi ed i passi che sollevano nubi sciocche di polvere dolorante.
Con un dito disegno un pallido sorriso su un muro di cinta, sulla punta delle labbra nascondo fiumi di lettere e segreti, stordendomi il cuore con qualche ricordo che avvampa, di qua e di là.
Passa un cavallo, bellissimo, in fiamme.
Ma adesso è ora di finirla, penso.
E comunque ho sempre pensato troppo.
Inganno il tempo quel tanto che basta per dimenticarmi di parlare ancora, per non blaterare di ovvietà quando sarebbe troppo tardi.
Ehi sta finendo il mondo.
Però ci sono queste immagini, che non capisco, che mi spaventano, vorrei una sottana a cui aggrapparmi come nelle fotografie sbiadite di una volta.
Per certi versi, è una cosa che credo di sapere già.
Si può ignorare il presente, insidiare la vita, portarla in un vicolo, e stuprarla con tutte le forze.
Puoi essere il più bastardo dei figli di puttana, o un gracile ometto dal buffo nome, con un amore segreto agli angoli della bocca.
Puoi arbitrare le vite degli altri, sputare figli nel caso, regalare fiori e tradire amanti e mogli, adescare le tue paure, disegnarti una fede al dito, o soltanto desiderare di avere le tette più grosse.
Puoi ammorbare i fogli di insensatezze, mentendo a te stesso, dicendoti bravo, bravo, applaudisciti, rotolati, un cagnolino, bravissimo, avrai un biscottino, una statua, presiederai gli stati, ricorrerai sui giornali più spesso dell’amore e dei silenzi.
Ma, ehi, sta finendo il mondo.
Niente foto, prego.
Dovreste spegnere i cellulari.
Fate poco casino, che dio c’ha mal di testa, e vuole riposare.
Si è stancato, si è stancato, e i bambini lo canzonano, pappappero, dio non ce la fa più.
E quel cavallo, quel cavallo, in fiamme.
L’ho immaginato, l’ho visto, l’ho ignorato, l’ho inseguito, l’ho perso e l’ho ucciso.
Lo mangerò, lo porterò con me, lo nasconderò ben stretto nel cuore.
Ho chiuso gli occhi, sono morto e risorto.
Ho scommesso con il cristo gesù, lui ha barato, lo so, il mazzo era truccato.
Per mondare la mia lingua volgare mi è stata tagliata di netto, ZAC, esposta sul bancone del macellaio.
Mi faccia un etto di pettegolezzo, il resto lo decida lei.
Corro, le mani premute in faccia, il sangue mi gorgoglia vorace da in fondo alla gola.
Mi scivolano via le parole, cerco di raccattarle, forse potrei ancora voler soffermarmi su un sentimento che non ho ben assaporato.
Ma le mie papille gustative ardono e scoppiettano come pop-corn, insaziabili e spaventate.
Le mani, le mie mani, si stanno lordando delle mie maldicenze.
Mi tremano, bruciano, fanno così male.
Per mondare le mie paure, mi strappano gli occhi, ZAC, rivenduti come preziosi ad un cieco che non li riconosce, e li getta via.
Che faccio, che faccio adesso?
Ehi, non lo sai che sta finendo il mondo?
Stai zitto, cazzo, non vedo niente.
Annuso fremente l’aria intorno, il vento fa il ritroso, si vergogna, non mi vuole raccontare niente.
Il sibilo dei rami secchi mi ricorda un sogno fatto da bambino, e che mi ha accompagnato troppo a lungo.
Ormai le labbra mi si sono gonfiate, pulsano, dolorose.
Ho paura ad accarezzarmi lì dove c’erano gli occhi.
Tremo tutto, spasmodico, come un folle.
Comincio a correre.
Il fumo si abbarbica per le narici, mi gratta furioso dietro la testa, e se potessi, piangerei ancora.
Non so dove stia andando, ma non voglio fermarmi.
Piano piano sembra tutto farsi più confuso, pateticamente dolce.
La prosa si strappa i vestiti, nuda si esibisce volgare in piroette e grossolane vaccate.
Non voglio più dover pensare a tutto questo.
Cosi corro, e corro ancora più forte.
Se potessi, si, direi di essere bellissimo.
Si, sarei così bello, cosi fottutamente bello.
Magari, mi dimenticherei di tutta questa sporcizia, non annegherei nel fango.
Sento il petrolio ribollirmi nel cuore, pulsato troppo veloce fin dentro la mia testa.
Inciampo, cado, ruzzolo, e di nuovo il dolore ride istericamente sino a sputare sulla mia rancida vergogna.
Brucio, si brucio.
Ardo, le mie grida si spandono, si spezzano, esplodono in frammenti scomposti.
Lentamente, mi abbandono ancora un poco al buio lucido e scivoloso.
Adesso, in bocca, ho un sapore di morte e di vetri sporchi.
Nei polmoni si attorcigliano nugoli di sospiri.
Mi contorco, il terriccio mi invade ferite invisibili.
Sento che qualcuno mi guarda, mi guarda e non capisce.
Forse, è triste per me, vorrebbe versare qualche lacrima anonima, da copione.
Magari si stropiccia le mani, perché non può stropicciarsi l’anima.

Ma, ehi, è la fine del mondo, no?

domenica 30 gennaio 2011

apocalisse II


Si spegne il mondo, il mondo è in fiamme.
Arde il mondo, il mondo grida.
Io passeggio insolente fra le strade di cenere, incurante della pioggia arida che inibisce i sorrisi ed i passi che sollevano nubi sciocche di polvere dolorante.
Con un dito disegno un pallido sorriso su un muro di cinta, mi intingo nella lordura di una gioia insapore, stordendomi il cuore con qualche ricordo che avvampa, di qua e di là.
Passa un cavallo, bellissimo, in fiamme. Sembra non volersi fermare davanti a nulla, rincorre il cielo livido, picchiato da poco da un marito geloso, un dio frustrato, che si mangia le unghie e la notte, di nascosto, spia chi dorme, solo per contarne i respiri, ed intervallarli con qualche sorriso di poco prezzo.
Corri, sì, bellissimo corri.
Non ti aspettavo, non ti aspettavo, ma ora insolente bussi ai vetri delle mie speranze, sfondi le pagine della mia coscienza, e lasci che in bocca mi si formino bolle di parole, che scoppiamo, pup pup pup, in qualcosa che mi vergogno a riferire.
Il rosso è il colore della giornata, come in un gioco a premi, metto nel piatto le mie viscere stanche, e osservo negli occhi le ombre dietro le ombre.
Forse, ho un po’paura.
Ma ecco, passa di nuovo, bellissimo.
Così, bellissimo, corri.
Proverò a seguirti, da qualche parte, in cima all’universo, e nelle palme terrò le stelle che ho sempre sognato. La luna mi sembra così indifesa, quasi mi fa pena.
E vorrei che il sole mi abbracciasse ancora una volta, prima di spegnere la luce.
Mi tirerò le coperte sopra la testa, come fanno i bambini.
È bello essere bambini. Puoi piangere per le ginocchia sbucciate come per i desideri che marciscono nei cassetti del magari dopo e del poi forse.
Puoi gridare se non senti il bisogno di parlare, e puoi racchiudere il tempo di un giorno nello spazio di un anno.
Puoi tirare su la tapparella, lasciarti investire dalla novità sempre identica, e stupirti di qualcosa di tanto stupido da commuovere un santo, ma i santi, no, non ci sono più.
Li abbiamo finiti.
Allora batti i piedi a terra, fai le facce brutte, la mamma ti sgrida, forse ti dà uno schiaffo.
Eccolo, il santo, ecco qui, e alla fine hai vinto tu, i bambini vincono sempre.
Soldati senza divisa, imbracciano la loro ingenuità andando incontro a se stessi, fra quei volti che sembrano mille.
Poi, una mattina, si svegliano.
La pioggia ha lavato via il tempo, ci ha restituito solo fuliggine e conti da pagare.
Batti i piedi a terra, ancora.
La mamma non c’è. La mamma non sgrida, non schiaffeggia. La mamma è un nome, delle lettere, sillabiamole, e non resta che un bianco che scotta, non toccarlo, è pericoloso, mettilo via.
Dove? Qui, a cavallo fra il cuore e la memoria.
Ti servirà, non dubitarne.
Ne avrai bisogno, per annegare con dolcezza quando barcollerai ubriaco di sogni e pazzie.
Però adesso c’è questo fumo, ed una tosse nera dal fondo dell’anima.
I vestiti ti si incollano alle paure, il sudore ha l’odore di qualcuno che hai già conosciuto.
Eccolo, eccolo, sì, corri, bellissimo corri.
Inseguiamolo, tutti insieme.
È l’ultimo giorno di appello, poi la maestra si impiccherà lasciando ai posteri un testamento di risate e denti marci.
Corriamo, bellissimi.
Corriamo così, nudi nella selva di punteggiatura fra la notte e il giorno.
Poi apriamo gli occhi.
Lui è lì, bellissimo.
Il cavallo.
Si contorce.
Muore.
Noi battiamo i piedi a terra, piangiamo.
Mamma (?)
Mamma, io comincio a correre.

E chi mi ferma più?

giovedì 27 gennaio 2011

Apocalisse I


Si spegne il mondo, il mondo è in fiamme.
Arde il mondo, il mondo grida.
Io passeggio insolente fra le strade di cenere, incurante della pioggia arida che inibisce i sorrisi ed i passi che sollevano nubi sciocche di polvere dolorante.
Con un dito disegno un pallido sorriso su un muro di cinta, mi intingo nella lordura di una gioia da bambino, stordendomi il cuore con qualche ricordo che avvampa, di qua e di là.
Passa un cavallo, bellissimo, in fiamme. Sembra digrignare i denti e mormorare frasi sconnesse, come se domandasse informazioni per il paradiso. Poi, all’improvviso, cade, si contorce, muore.
Il cielo si rivolta allo stesso modo, non vuole cedere al peso dell’universo sopra di lui, e ha troppa paura per ammettere di essersi sentito così tanto solo, così troppo solo.
La grammatica di dio si congela nei biascichi sbavosi di un vecchio mendicante, la barba umida e unta, brucerà anche quella. Tiene solerte un cartello, dice aiutatemi ho fame e non ho soldi, e impietoso il tempo gli si è strappato via dalla faccia, ha lasciato solo i solchi di rughe sudice ed il bianco di una saggezza da avanspettacolo.
La parola di dio è quella che domina la città, sui cartelloni con culi e seni troppo sodi perché non ci si posi lo sguardo funesto dell’allibratore di momenti trascorsi così, in uno schiocco di lingua, che gusto, che sapore; un po’come languire a lungo fra gli abbracci ed i silenzi, come se tutto, veramente, dovesse avere un sapore, o un colore.
Il volere di dio ha l’ironia del sorriso di sbieco, che taglia la faccia, da una parte all’altra, così che poi, alla fine, non si fa altro che sedersi a ridosso di un teatro di martiri per applaudire qualche balletto macabro, una salsa da zitelle, un walzer di poveri mentecatti, il tip tap dei putridi, latranti ingenui, amici cari, amici miei, qui, qui tutti, in cerchio, giro girotondo, ma quant’è bello il mondo.
Ci divertiamo come matti, ci divertiamo come matti, mamma, mamma, mamma mia, aiutami, ti prego.
La polvere mi è scivolata nelle vene, si mescola al pulsare dell’orologio che tengo dentro al petto, la molla si incastra, proprio qui, e non c’è verso di capire come fare a ritornare dalla parte più giusta del mare. La salsedine si è incrostata dietro agli occhi, le lacrime ora hanno il sapore dei pesci annegati e degli scogli innamorati del rumore delle onde, timide amanti virginee e un po’sciocche, come le ragazzine di quei film tanto buoni da essere una così meravigliosa bugia.
Ah, che bello ingannarsi tremando di freddo al calore di uno schermo, schiacciando la nostra divina saggezza sulla plastica morbida dei nostri umori caldi e stanchi.
Ci rigiriamo, porci sorridenti, nel trogolo della misericordia mondana, accendendo i ceri della celebrità e consacrando le ore di sguardi a rampolli dell’idiozia, leccando furenti i nostri desideri ingloriosi sino a consumarci come triste fuliggine.
Ma tutto questo è passato, una parentesi, una sbavatura.
Non mi ricordo più dove volessi arrivare, e continuo a camminare.
La mia faccetta buffa, sul muro, quella non c’è più.
Ricoperta da una neve opprimente, spaventosa.
Ho  tanto freddo.
Ripenso all’inizio, mi aiuta a comprendere la fine.
Ricomincerò storie e storie, così, allo stesso modo.
Forse, ritroverò la strada.
Forse, ritroverò le parole.
Forse, e forse no.
Siamo rimasti io, il mondo, il tempo e dio.
Così mi siedo, nella terra livida, sbuffante.
Mi guardo intorno, il vento ansima, voglioso.
Non credo di capire bene, o forse non lo voglio per davvero.
Chiudo gli occhi, ed il buio è così rigoglioso da farmi venire voglia di piangere e dire basta, smembratemi, regalatemi l’ultimo atomo di bastevole pochezza, ma non lasciatemi qui.
Ma, intorno, solo il mondo.
Grida il mondo. Arde il mondo.
È in fiamme, il mondo.
E si spegne.

giovedì 20 gennaio 2011

aftermath.

Com’è possibile addormentarsi nell’incostanza della giornata? La caducità dei momenti passati è irriducibile e frustrante.
Bisognerebbe segnare una pagina bianca per ogni dubbio empirico, o semplicemente porre le domande giuste al dio più libero la domenica mattina, giorno di chiusura della nostra razionalità, quando invece le illusioni fanno grossi saldi: la fede si può acquistare su eBay, poco prezzo, e occultamente ecco che t’infili nelle orecchie il mormorio sciocco e slavato di un qualsiasi cantico.
Sono solo dubbi, niente di più; non si può semplicemente guardare avanti? Eppure, quando nella solitudine squallida di un ospizio si spegne il gocciare dell’esistenza, lo schifo cosparso d’oro della vita si trasforma in una melma informe da seppellire, come merda per concimare i fiori in un campo di morte sconosciuto, visitato dal pellegrinare affranto di parenti occasionali, semplicemente intristiti da giornate che curiosamente appaiono sempre tristi quando si valicano i confini di un cimitero qualsiasi di un mondo unilateralmente ateo. Poiché altro non si può pensare, di chi grida ai venti la giustizia di altisonanti scelte, senza però poterle realmente giustificare.
Chiedere come nasce un bambino è causa dello stesso imbarazzo prelato alla domanda “perché”.
Sciocchezze, si può pensare, e il giorno si estingue nella notte, battezzandosi padrone del tempo.
Ma se poi tremando ti avvicini al cuscino che accoglierà il sudore della tua dipartita, cosa fai? Piangi, piangi, gridi, puoi bestemmiare il dio dei giocattoli perduti, il dio delle piccole cose, il dio dei giorni mancati, il dio degli appuntamenti in ritardo, degli amori postumi, degli imbarazzi, il dio delle mutande sporche, dell’infanzia pentita e finita. Dipingiti il “dopo”, senza soffermarsi troppo sul “durante”.
Potresti vedere una luce bianca, o qualsiasi cosa tu possa preferire, ma dove sono i colori di quella strana quiete che potrebbe darti il raderti ancora la mattina successiva, o il sorriso della moglie e del marito, il ronfare del gatto sul letto, il giornale in salotto? Invece potresti andare ad arenarti nell’inconsapevole quiescenza di un letto macchiato di un’unta disillusione, abbandonati alle visite sporadiche nel corso della settimana, alle volte dimentichi dello stesso vivere, perché si è già scordato come ridere mangiare pensare tenere a freno quella bastarda vescica, e allora ecco il pannolone, a farsi tastare come infanti della peggior specie, galeotti in una prigione composta di pura vergogna, e ora senza più nemmeno la coscienza per poter dire a se stessi e all’universo intero basta così, basta così vi prego, l’umiliazione brucia agli angoli degli occhi, nel fondo dell’anima, è un desiderio che punge come lo spillo della debolezza inerme del povero vecchio di quel giorno che fu quando da giovani ci si diceva con risentimento non sarò mai così, e sia allora, rifiutando magari anche l’evidenza dei capelli rimasti nello scarico della doccia, e il non capire sempre più che il mondo ancora vorrebbe girare in senso orario, ma per noi oramai è un distillato di passate emozioni.
La scrittura si fa grande, gli occhi piccoli per il sonno.
Il cuore batte troppo poco o troppo spesso, e la salute, eh quando c’era la salute, ma non ci sono più i giovani di un tempo, sai che non mi ricordo, ma te l’ho già raccontato, e ancora: ti stringo le guance, te le strapazzo, so che lo odi, ma nipotino come sei cresciuto tu pensa che ti conoscevo quando eri alto così.
No, non ho fame, non mi piscio addosso, sono stato un padre migliore di quanto il mio non lo sia mai stato, io ho visto fatto perso vinto definito e vissuto la guerra.
Io sono sopravvissuto ai miei tempi, ma non sono sopravvissuto alla vecchiezza estenuante, che tanto prima o poi ti prende, come se giocassi a nascondino in mezzo al deserto, cosa puoi fare ancora se non inginocchiarti, ma per cosa?
Guarda sorgere la luna, inibisci il dolore, scordati le notti, i giorni si assomigliano, gozzoviglia nella noia, compatisciti, inacidisciti.
No bambini non potete giocare nel mio giardino, perché l’amore è sfiorito con i giorni e gli anni mi pesano sul cuore  come il martellare della mia spossatezza.
Sono sempre più stanco, abbandonato, e sempre più abbandonato allo sconcerto dei miei dubbi atavici che non trovano ragion d’essere.
Com’è possibile ridursi all’ombra pallida di se stessi? Cos’è tutto questo, una grande commedia che può durare un secondo o quasi un secolo? Dio dà, dio toglie.
Una lista forse. Sì, una lista.
Come quella dei buoni o dei cattivi. Come quella di Babbo Natale.
Chi è cattivo merita di morire, non c’è dubbio.
Ma paradossalmente tutti prima o poi cambiano verso nel sonno, e non si alzano più, per quanto stiano così scomodi nella morte.
Si potrebbe tirare una moneta, fare testa o croce.
L’orrore e la vergogna della senilità coglie impreparati, come a un’interrogazione il voto è basso, ci si corregge ma non c’è tempo, ormai ne è passato fin troppo.
Voltare pagina, combattere con una routine imprigionante, squassante, ammorbante.
Ridisegnare i confini della propria vecchiaia, sperando segretamente di poter ancora fare l’amore, vedere ricomparire un corpo non raggrinzito, gonfiarsi i seni, non sentirsi estranei alla modernità, lontani dall’adeguatezza puerile di questo presente distante.
L’ospizio è il girone dell’inferno dei malcapitati, abbandonati a se stessi o per se stessi, relitti, reietti, esuli dall’affetto.
Ma il silenzio di una casa per troppi anni è la vedovanza della felicità e della gioia.
Puntati una pistola alla testa, falla finita, premi il grilletto a cinquant’anni.
C’è sempre un problema però: il transitare da un capo all’altro è preoccupante.
Rivolgiti allora allo stesso dio dell’inizio, ma mettiti in attesa: una musica lamentosa e salmodica segnerà i tuoi tremori freddi.
Quando risponderà la segreteria telefonica ci sarà solo un imbarazzato silenzio: che cosa chiedere?
Cosi il resto è oscuro, un buio scivoloso e accidentato.
Basta così.
Troppe parole per una sola cicatrice già rimarginatasi con l’idea del “è stato meglio così”.
Non lo si può sapere, ma lo si può sperare: nessuno è mai tornato indietro a reclamare.
Magari è un grande lotto di ville da sogno, con piscina.
E vivere l’eternità nell’anzianità?
No si torna giovani.
Allora perché morire vecchi? E morendo giovani, si vive l’eternità nell’infanzia?
Basta così.
Angosciarsi è solo un protrarre l’attesa dell’inattendibile, oltre il quale non si può più aspettare, ma immaginare.
Immaginare cosa?
Basta così ho detto.
È stato meglio così.

Illudersi ha un sapore migliore.
L’attesa marcisce, noi con lei, ed il mondo crolla.
Monda le mie pene, pecca con me, ma guardami con affetto.
Io non ne ho colpa, e soffro.
Io non volevo, e soffro.
Io non ho sbagliato, e soffro.
Soffrirò, sì, questo  è certo.
Basta così.
È meglio così.
E sempre lo sarà.

amen.

ne(g)ro

Cadeva qualche laccio di pioggia; sembrava il cielo non volesse smettere di sgravidare i propri sentimenti, e lui stava bagnandosi il vestito della festa, il vestito per il funerale, il vestito per il matrimonio, e per ogni giorno dell’anno.
Tornava a casa dopo una lunga giornata passata a combattere contro una vita che non aveva voluto per davvero, ci era semplicemente cascato dentro con tutte le scarpe, e il fango gli era entrato nelle vene.
Aveva paura dell’oggi e del domani, e non ricordava più tanto bene ieri cosa fosse significato per lui; forse una storia d’amore finita male, o forse qualche gioco andato perduto alla roulette russa.
Era o non era un essere umano? Lo osservavano con disprezzo, compassione da due soldi, solidarietà da mercatino delle pulci.
BRAVO, BRAVO, sembravano gridargli, e battevano quelle loro mani impolverate di stupri e bugie. Lui stringeva gli occhi, non poteva piangere ancora; si sarebbe inginocchiato e avrebbe pregato, avrebbe sorriso, avrebbe ingoiato qualche nuova umiliazione, pronto a toccarsi il cuore e venderlo come un pezzo di carne in macelleria.
Ma quella pioggia non voleva saperne di smettere, era sempre lì, presente compagna d’un viaggio senza fine ed inizio.
Continuava così a camminare, e non poteva scordarsi del sapore del mare che aveva solcato senza bene capire come, ma ben sapendo perché; un giorno, infatti, la guerra aveva bussato alla porta della sua esistenza, suonando il campanello del suo Paese, e trovando occupato il telefono per il dialogo civile, aveva socchiuso la porta a cannonate.
Le grida sarebbero rimbombate nel silenzio del tempo sconosciuto a tutti; a nessuno importava, e mai sarebbe importato
Quando gli capitava di vedere gli spot pubblicitari, incantevoli pubblicità progresso (?), gli veniva da vomitare. Mostravano perfettamente gli orrori del suo piccolo mondo, e la gente osservava sempre qualche istante di silenzio, se solamente ne aveva voglia.
Ma poi tutto ripartiva, e chi beveva beveva ancora, e chi gridava gridava ancora, e chi viveva viveva ancora e sempre, e niente era successo.
Era arrivato una sera in cui gli stessi lacci di pioggia bagnavano la terra, ed era scappato in fretta perché non lo potessero vedere; nel viaggio erano morti in tre, due bambini e una vecchia senza nome né patria. Nessuno se n’era accorto; o, almeno, tutti avevano finto di non accorgersene.
Era subito andato ad inciampare nell’universo del lavoro, trattato come schiavo da un ignorante dalla puzza sotto il naso, un commerciante di pomodori che nemmeno sapeva coniugare i congiuntivi.
Si ricordava ancora della fatica fatta ad imparare una lingua tanto complessa, prima ancora di andare a lavorare in pizzeria, per portar da mangiare a unti untori, quando gli chiedevano la salciccia, e lui diceva, fra sé e sé, no, salsiccia, e gli chiedevano, se tu sapevi come dirlo, lo dicevi meglio NEGRO, e la parola gli bruciava nel petto, e faceva troppo male per poter essere inghiottita.
Ma lo aveva fatto, troppe volte, prima di essere cacciato ancora una volta quando la polizia aveva fatto irruzione per l’ennesima volta, e come da sempre era solo colpa sua.
Perché tutti voi siete uguali, dicevano con sufficienza e compiacenza, perché se esistono le puttane è perché voi le mettete per le strade.
Ma Voi non ve le scopate mai.
Perché se la droga c’è, è perché solo voi la spacciate.
Ma Voi non la comprate mai.
Perché se una donna viene stuprata, siete voi i barbari, i mostri, gli animali.
E voi mai infatti avete pensato di usare le donne come semplici oggetti da scambiare, rompere, rimpiangere, terrorizzare. Siamo noi i barbari, i mostri, gli animali, noi che arriviamo come un esercito, e facciamo così tanta paura che a malapena ci rivolgereste mai la parola.
Noi che siamo così orrendi che a stento volete conoscere i nostri nomi.
Noi che siamo così tanti da essere tutti uguali; se il deviato ha lo stesso colore della pelle, ecco che tutti sono deviati, marci e marcescenti.
Le vittime ignare della generalizzazione siamo noi uomini senza futuro ma con troppo passato, e loro donne con poche lacrime e migliaia di ferite invisibili.
Martiri della morale estranea, bersagliati dalle pietre delle malelingue, crocifissi mediatici infilati a forza negli scarichi dell’etica del patetismo più sfrenato.
Grazie, grazie e grazie ancora, voi che avete svenduto la vostra misericordia per il terrore, voi che avete cancellato dai libri di storia l’esistenza che ci avete demolito, pezzo pezzo, scuoiandoci l’anima con una lentezza sadica ed esasperante.
Grazie a voi, un altro cammina sotto lacci di pioggia stanchi, vecchio seppur giovane, il vetro negli occhi, il cemento nel cuore, il silenzio delle mani, il sapore di morte in bocca.
Grazie, e grazie ancora.

On a enseigné à l’Afrique l’histoire européenne,
mais on a oublié d’enseigner à l’Europe l’histoire africaine.
Tiken Jah Fakoly

la lista della spesa


Scivola ignara sul finestrino della nostra ultima crociera insieme, mia piccola lacrima grigia, inconsapevole del destino dell’umanità
che gioca al gioco del nascondersi per non più guardarsi negli occhi
ed è da troppo tempo che questa roulette russa non finisce i proiettili
quanti ancora i genocidi da appuntare alla lavagna, come fossero ordinari calcoli algebrici?

Ma allora ci vorrebbe qualcosa per tirarsi un po’su,
amici miei, fratelli e flagelli
brindiamo con il lordume delle vesciche purulente dei nostri cuori infranti
lasciati a marcire nello squallore di un volgare bordello
e tutti insieme sulla giostra abbacinante dei sogni puerili
e che si confonda il dolore vero con l’ignaro modismo giovanile
nello smodato acquistare conoscenze a poco prezzo
e qualche nota tinteggiata qua e là
fiammelle di carta egocentricamente volano al centro dell’universo
nell’obolo delle donazioni di organismi mutanti
aborrii, aborti, dolori e squassati sulle zattere di quelle albe senza colore si osserva il sorgere del nudo greco magistrale che è la fine del tempo, lo sguardo dotato d’un’inaudita possanza
 dischiude il seno a un abbraccio vorace e lussurioso

ti diverti, sadica puttana?, divinità d’una scottante invidia
e se non fosse per il muro di codardia che separa l’uomo dall’animale
staremmo ancora tutti a mangiare pulci per combattere i morsi della fame
mentre ignorantemente al mattatoio d’una lordura demente si portano i bambini partoriti dalla placenta d’una vacca scialba la cui anima fu venduta per un tozzo di mondo intristito dalla muffa dei secoli
mentre incessantemente prosegue la mungitura di friabili incostanze e maldicenze
insieme agli insulti giornalieri degli ipocriti occhi dolci di dorate spiagge di sconsiderata inutilità
e forse il candeggio dei nostri sentimenti era sbagliato, ed ha mescolato i colori sino a creare un’indeterminata miscelanza di combinazioni fortuite senza apparente senso
che soltanto il grido silenzioso d’un vagabondo qualsiasi potrebbe svelare
come fosse il più antico profeta di più antichi segreti
ultime pagine di una bibbia composta di divino pettegolezzo
e dinanzi a uno schermo televisivo, vomitante quei sempiterni vacui soffi d’un fetore unico,
accondiscendente,
gelosamente tenuto fra l’intimo della biancheria e dello spirito
ci si abbruttisce come pesci al giogo d’un acquario di deliranti terrori
e si fa la lista della spesa, senza troppo pensarci:

  • vivere
  • partorire
  • sopravvivere
  • mangiare
  • scopare
  • scopare
  • mangiare
  • dormire
  • mangiare
  • sopravvivere
  • guardare il mondo con gli occhi di un altro
  • rubare i sogni a chi di sogni non ne ha
  • scopare
  • scopare e poi dormire
  • mangiare prima di dormire
  • andare a procacciare le nostre menzogne di sempre
  • dolore
  • dolore
  • dolore
  • dolore
  • dolore
  • dolore
  • dolore
  • dio
  • odio
  • odio
  • odio
  • odio
  • odio
  • odio
  • odio
  • odio
  • odio (aiutatemi)
  • uccidere
  • guardare qualcuno morire
  • il tempo scorre senza che noi possiamo chiedergli il permesso di putrefarci
  • tutto questo è un incubo
  • delirio
  • dolore
  • odio
  • scopare e mangiare e scoprire che non molto ha troppo senso
  • il  mondo è una pozza d’acqua
  • perché conosco tanto poco?
  • pane
  • latte
  • mandarini e arance
  • non è stagione per l’amore
  • il martirio con le patate
  • anatra impiccata con viscere di un silenzio troppo prolungato
  • solitudine all’aneto
  • polpette di lacrime
  • dolore
  • dolore
  • scopare (?)
  • chi sei tu?
  • non voglio conoscere il destino dell’universo, perché sono un bambino
  • piangere
  • manie di protagonismo
  • uccidere
  • delirio
  • sorridere (?)
  • non pensare
  • odio
  • odio
  • odio
  • odio
  • mangiare dormendo
  • scopare morendo
  • il torpore va passando
  • rimare il volto d’una donna meravigliosa
  • odioodioodioodioodioodiooddiooddiooddiooddiooddiooddioodioodioodioodioodioodioodio
  • è una follia lancinante sulle note d’un jazz sbagliato, la lista della spesa di questi sconsiderati e ritmici danzatori lombici che come vermi si contraggono nella morsa gelida del vento primaverile mentre le piogge estive esitano a spazzare i peccati del mondo, e metto tutto nel più grande dei carrelli; la commessa, ironicamente, sorride. Fuori vedo che sta piovendo. Una piccola lacrima grigia fa capolino, dispettosa, dal fondo dei miei ricordi.  Non so quanti sacchetti scegliere, e cosa dell’esistenza terrena sia in saldo. È un piccolo passo perché in così pochi possano farlo.


Ho troppa paura per chiedere il conto.
È tutto così stonato da non avere che bordi sbavati come il rossetto sorridente di un clown stupratore di bambini, violento in un mondo di violenti, senza la benché minima considerazione da parte di un pubblico ingrato e fischiante.
Si tirino pure chiodi e croci a chi è sotto i riflettori, la polvere farà tossire i falliti, invidiosi perdenti, mancatori di istanti preziosi, hanno pensato a scopare mangiare odiare uccidere dormire distruggere annichilire divinizzare divorziare mentire perturbare distrarre sedurre soffrire piangere morire vivere e morire ancora donando la vita già segnata da un contratto a tempo determinato con un’agenzia delle imposte ignobile senza che il signore dio nostro abbia creduto fosse d’uopo ingrandire la clausola ultima della dannazione.
Nella vita, si è forse almeno una volta avvocati del diavolo, no?