domenica 20 marzo 2011

tre, molecole di treno. Bum.


L’ometto.

A questo punto metti sull’altare, o sulla bilancia, il mondo, ed il suo stomaco tutto infetto.
E pensi: che schifo, io ci sto dentro.
Ed è una cosa che vedi sempre, da quando più o meno sei nato.
Il problema è che se manchi il parto, e finisci da qualche parte dove ancora si parla a banane, è la fine, perché sarai sempre e soltanto una manciata di fango.
Cioè, è una questione di dove e quando, capisci? E basta poco: tua madre a gambe all’aria, e poi tu che sei coperto di appiccicume rosso mieloso.
Come quello con la giacca sportiva, qui, che mi ignora, o fa finta. Lo so che si è accorto di me, che lo guardo, che lo indago, e sì, lo giudico.
Perché io posso giudicare, e posso pure avere ragione.
Perché io ho pagato il mio dove, io ho pagato il mio quando, sono stato beatificato dalla piccolezza e dalla tristezza che tanti sudano da ogni fibra muscolare.
Mi piace sapere di essere migliore di molti di voi.
Mi piace poter riempirmi le pupille di odio, di disgusto, di bava lucida, e nonostante questo gridarvi addosso non rompetemi le palle.
Statemi lontani.
Amatemi.
Voletemi.

L’ascoltatore.

Non si può contare la strada da qui a Bologna; cosa sei, scemo?
E mi disturba proprio così tanto.
Perché non è tutto come dovrebbe essere.
Perché non è tutto come dovrebbe essere?
Passi trent’anni della tua vita a correre a pieni polmoni, e poi ti arriva sul groppone un acciacco accidentale, che è la vecchiaia, e che cosa devi fare?
Ti riduci a fare guerre di briscole? O ad aspettare Pippo Baudo un’altra volta?
Ti abbronzi con la tv, o leggi? Tanto lo sai che il tuo corpo ha iniziato a viaggiare piano da solo, e ti svegli alle cinque anche se vai a letto alle otto di sera.
Almeno cago spesso, sennò sarei veramente uno schifo.
Però poi io non ce la faccio a starmene così, bicicletta accanto, a sfregarmi il tempo ed il cervello mentre guardo i lavori stradali.
E non voglio nemmeno starmene rinchiuso in un qualche ospizio, a sbavare per l’amore di qualcuno che tanto non verrà mai.
Perché si vergogna.
Allora sai cosa faccio tutte le mattine?
Io prendo e me ne vado, scappo, salgo sul mio treno, e ascolto la sua musica, senza sosta.
Però sono pur sempre un vecchio, un prigioniero politico.
E le mie sbarre sono sempre gli stessi giorni uguali.
E mi piacciono, i giorni così.
E quel tipo che conta, ecco, lui ha proprio rotto le palle.

La ragazza.

Ma sta piovendo…?
Che palle.
[…] mi viene a prendere in motorino, e piove.
Vabbè. Sfiga.
Prendiamo il libro e…MA DAI! Mi si è rotta la lampo…ma…così!
Che palle.

Musica.

Ci siete, no?, mi seguite?
C’è un dove, un dove strano, che conosciamo tutti.
C’è un dove che deve cambiare, essere sostituito.
Io avevo il mio dove, avevo il mio quando.
Non ne ho più voluto sentir parlare.
Ne ho trovati di altri, ma per un po’mi hanno deluso.
Adesso ne ho di nuovi, di brillanti, così, lontani.
Dal resto.

Quello dall’altra parte.

Se fossi così, amerei.
Amerei tutti, amerei tutto.
Amerei, amerei soltanto, non perderei troppo tempo.
Piacerei a tutti.
Tutti vorrebbero essere come me.
Tutti vogliono essere me.
Mi amerebbero, e io amerei loro.
Questo fai quando puoi comprarti dio.

Il contatore.

 Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, si arriva ci si allaccia le scarpe si abbracciano le tombe si incastrano i bernoccoli delle idee, e adesso sono 2126 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

La ragazza.

Non ho letto niente, ho la zip rotta, fuori piove, e sarò in motorino, l’esame è a breve, voglio uscire domani sera, farmi un po’di vita come la preferisco, e non pensare a niente. C’è altro?






L’ometto.

Quando sei come me, quando sei me, puoi odiare tutti.
Non ti serve adorare altre bocche, altre facce.
Qualcuno vorrà per forza te.
E quindi è così facile starsene sopra il resto, a brucare le vostre speranze, schizzandomi in vena immagini celebrali di voi con le vostre vite e mogli-culo-cellulite-tette-a-ginocchia, di voi mediocre-felice-mangia-merda, sbroda-figli-a-caso, incazzoso-politico-mollusco, e altre categorie da enciclopedia delle scienze umane.
È facile odiare tutti, e tutto, così, un po’per noia, un po’per divertimento.
Leggere in un occhio qualunque la stessa domanda, che cosa fai per essere così?
Come fai ad avere la testa così vuota di polvere, il cuore così povero di vetro, il tempo così pieno di luci?

Musica.

Non so bene ancora cosa dirvi di più.
Magari potrei prendere tempo lisciando la mia giacca sportiva.
Pensando al fatto che la camicia che indosso mi piace.
Sapendo che l’uomo con la barba elegante è un bastardo, e mi odia.
Oppure potrei semplicemente vedere se riesco a sincronizzare la prossima canzone con la pioggia.

L’ascoltatore.

Siamo quasi in stazione centrale, ed oggi non è stato come ieri, e questo mi fa arrabbiare.
Non è divertente.
È come sapere di essersi dimenticati di nuovo le chiavi di casa; vuoi entrare, sai già tutto il resto, ma non puoi.
Ed io oggi non riesco a entrare, non riesco a passare, attraverso di me, e attraverso il treno.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, quell’ometto che capisce che conto non capisce perché conto ed io conto perché dopo un po’sulla mia tavola periodica c’è il simbolo di qualcosa che non capisci, e adesso sono 1854 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

Musica.

Spengo le note che ho nella testa, metto via l’iPod.
Con la mano, nella tasca interna scivolo sulla carta strana del mio biglietto aereo.
Ho un contratto che dice chi sono, che vivo, che respiro.
Ho un contratto che dice che sono stato abbastanza simpatico, brillante, per meritarmi un altro domani, con un sapore diverso.
Sono scappato da un quando che mi faceva paura.
Sono scappato qui, solo per riprendere fiato.
Ho usato libri come cuscini, e ho imparato a dire di no.
Ho imparato a chiedere perché.
Ma anche qui mi hanno preso in giro, mi hanno lasciato un cartello attaccato alla porta dei tagli che ho nella memoria, e sopra c’è scritto mi dispiace ma non c’è bisogno.
Però non potevo scappare di nuovo, perché il mio dove ormai era lontano.
Ho solo cercato di colorare un po’ i contorni.
Qualcuno poi mi ha risposto, e mi ha detto posso prestarti un pezzo di giorno, e farti salire su un aereo.
Adesso me ne vado, sai?
Però non scappo più.

L’ometto.

Il treno che sferraglia, se ne torna nella pancia fredda della stazione, ed il negro si alza, la valigia e tutto, e dietro la ragazza, quella che BAM BAM BAM se mi guarda ancora un po’me la porto in bagno e le sorrido di più mentre si toglie i pantaloni.
Il coglione vivo-con-la-mamma si fa da parte, osanna nell’altro dei cieli per il suo dio a chilometraggio limitato, io gli sorrido e gli sputo sul cuore, nell’anima, e penso è bello fare il pubblicitario, sai sempre come prendere tutti per il culo nel modo più dolce ed incredibile.

Il contatore.


Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciufnononono è che siamo morti sulle rotaie con il silenzio nelle vene ma non è qui non è qui è più avanti che la scarpa ti si slaccia e allora sono ancora 750 metri quando poi Bologna muore.

Ecco, lo dicevamo fra una riga ed una sigaretta.
Non si può mai dire, si riassume così, no?, se ti perdi un pezzo e vedi solo quello che ti capita dopo.
Magari allora prendiamo qualcos’altro e qualcun altro, senza bene renderci conto del come.
Il quando e il dove però ci sono.
C’è la pioggia, che fa un gran casino, che bagna tutti, senza pensarci.
Sei a Bologna, dopo un treno che ha nitrito per 32 chilometri.
Allora c’è Piazzale Medaglie d’Oro, con gente che si sposta, che migra verso le proprie caverne urbane e riscaldate, ma loro non contano, non ci interessano.
Non sono le molecole del treno.
Di quelle che non puoi accostare, altrimenti: Big Bang.
Le nostre sono quelle lì, guarda, a sinistra, che non si conoscono ma non lo sanno.
Magari succede che una ragazza ne saluta un’altra, ridono, lei le mette in mano un casco, e salgono su un motorino verde che s’intona con l’universo.
Magari succede che uno continua a contare e non guarda nessuno, solo per terra.
Magari succede che uno vorrebbe ascoltare e lo segue un po’stranito.
Magari succede che con la valigia aspetti un taxi da una parte, perché un aereo atterrerà in tuo onore.
Magari succede che ti avvicini pensando negro e gli vuoi rubare il taxi perché lui non vola così in alto da avere la barba curata.
E magari succede che proprio in mezzo alla strada chi conta finisce i numeri, si pianta a terra, si volta e urla.
E quello chi ascolta ha il cervello che per un attimo si spegne, così salta indietro e si spaventa, come i poveri vecchi.
C’è un motorino verde che corre sul bagnato, con una ragazza che non ride più.
Frena, frena veloce, ma non basta, con la pioggia legnosa che ti martella tutta, e scivola con l’amica da una parte.
Se stai attento, ti ricordi di una zip rotta che salta, seccata, ed un libro indignato - per una buca ed il freno - se ne zampetta via, vualà, piroetta in aria e si apre senza pudore.
Spat!, è il suono che fa quell’esame che si schianta proprio così sul taxi che seguiva il motorino verde.
Chi guida non è solo di passaggio, un fantasma, una parentesi di vuoto.
È un coglione-che-(non)-vive-con-la-mamma, e le sue mani si fanno di nebbia, il volante si divincola con forza, e nessuno dei due vede niente.
Così poi finisce che vai nel panico, e non freni per davvero e chissà perché, anche se guidi da anni, acceleri da vero stronzo.
E magari non lo sai, ma vai a schiantarti contro chi si è comprato dio, che pensa subito le scarpe saranno tutte sporche.
E magari non lo sai, ma c’è chi aveva la giacca sportiva, e perderà per forza l’aereo, se prima non avrà raccolto tutto il suo sangue da terra.
Ci sono di quelle cose che non ci pensi, la mattina.
E ci sono di quelle molecole che quando s’incontrano, Big Bang.

lunedì 14 marzo 2011

due, molecole di treno.


L’ascoltatore.

Non prendetemi per pazzo, ma dallo sguardo di quello che ho davanti, credo di aver appena sentito il suo orgoglio gocciolarsene via.
O forse è solo per la pioggia sul finestrino.

Musica.

Non ho molto tempo per intrattenervi, giusto quello che si condensa fra una canzone e un’altra. Cosa volete che vi dica?
Avete presente quello che mi si è seduto davanti, con la sua bella barba, la sua bella faccia, la sua bella vita? Ecco.
Continua a guardarmi, un po’di nascosto, sperando che io non me ne accorga.
Però lo vedo, lo vedo e lui non mi piace.
Non mi piace per il modo in cui squadra la ragazza, o per come si mette in posa per quello dall’altra parte.
Non mi piace neppure quello che gli vedo negli occhi.
Ma non m’importa: io ho la mia musica.

L’ometto.

Ma guarda quello che faccia.
No, davvero, guardaci bene.
Con quella giacchetta sportiva, ma che cosa vuole?
Dove crede di vivere? Nel suo paese, nel suo cazzo di mondo?
Non è roba sua, è roba mia.
Ci sto io sulla montagna, a sputarvi a tutti in testa.
Fottuto negro.

La ragazza.

È passata un’altra stazione, il libro sta sempre lì a dormire nella tracolla.
E questo qui che mi guarda sempre, con i suoi occhiali eleganti.
Mi mette simpatia, perché piano gli si disegna un sorriso quando incontra il mio sguardo.
Non lo so, ma mi sembra di potermi fidare, così, dal nulla.
A voi no?

Quello dall’altra parte.

Chissà se crede in dio.
Boh, io se avessi soldi, non so se ci crederei.
Tanto, tutto quello che mi renderebbe felice me lo posso comprare, no? Con il mio MacBook Pro, ehi, andrei tipo dagli altri e direi: oh, ma hai visto che roba?
E poi con le scarpe eleganti, fatte su misura, come le sue, me ne andrei a passeggiare per i Giardini Margherita, e alle persone sorriderei sempre, perché c’ho i soldi in tasca.
Ho una moglie figa, non tutto sesso, e la tv al plasma, e i film in prima visione.
Non è che dio mi potrebbe dare qualcosa di più. Anzi, non è che mi abbia mai dato qualcosa fino adesso. Vabbè che non gliel’ho chiesto, però lui ama tutti allo stesso modo, no?
No?
E allora perché lui può avere una moglie figa, e io no?
Perché quella bella cartella in pelle marrone chiaro?
Sono sicuro che abbia anche un cellulare di quelli assurdi, che fanno di tutto.
Che bisogno hai di dio quando ti puoi mettere i desideri nel portafogli, e scappartene via?

Passaggio.

Non badate a me, sono di passaggio.
Una comparsa, una macchietta.
Cerco posto, non ho un nome, non ho un carattere.
Non sono nessuno, e tutti i sedili sono occupati.
Passo davanti ai presenti, sfilo sulla passerella di questo treno, una modella di nullità.
Nessuno si alza e mi dice siediti qui; nessuno ricambia il mio sguardo.
Sono una parentesi che si riempie di vuoto, e si chiude in silenzio. Addio.
Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, passa la donna, nessuno la vede, il mondo dei fantasmi, che nessuno li vede, e adesso sono 2914 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

L’ometto.

Lo sai perché prendo il treno, tutte le mattine?
Perché ci metto meno? State pensando questo? No, non è vero.
Tanto io posso andarmene a lavorare quando voglio, come voglio. Ho una macchina, ma non la guido spesso, perché non mi piace.
Non sopporto infilarmi nel traffico, sudare se fa troppo caldo, e sentirmi la camicia che mi si appiccica sotto le ascelle. Odio dover aspettare che qualcuno faccia i propri comodi, no, che metta la freccia, che giri, che ritorni, che se ne vada.
L’asfalto è solo un deserto di insetti, che si inseguono, gridano, sgridano, sbadigliano, sputano.
Ed io potrei benissimo essere uno di loro, no? Un insetto, una blatta di pus con le mie zampette rigide, che striscia nel cadavere schifoso della città.
Gnam gnam gnam.
Allora prendo il treno, e cerco bene dove sedermi.
Scorro fra i volti che sono già comodi, felici della loro squallida normalità, e cerco i più ignobili, i più anonimi.
E mi metto sempre i vestiti migliori, più costosi, più eleganti, e poi mi vado a mettere in mezzo a loro, che sporgono il loro collo incassato fra le ossa pesanti della stupidità, solo per assaggiare un po’d’invidia.
Per me, solo per me.
Niente insetti, niente vermi, o scarafaggi.
Niente clacson, fumo, semafori.
Io mi siedo, e aspetto, perché prima o poi qualcuno si accorgerà di me, e capirà che sono diverso, che sono in alto, così in alto.
E sarò il suo dio, per 32 chilometri.

La ragazza.

Adesso mi da fastidio, però, quello lì.
Sempre con gli occhi fissi.
Che cosa guarda?
Muove pure le labbra. Sembra…ma sta contando?

L’ascoltatore.

Quell’uomo sta contando.
Sottovoce.
E mi sta rovinando tutta l’opera del treno, la grande ouverture della mattina, perché se ne sta lì, a biascicare i suoi numeri, ed io mi distraggo.
Cazzo, se non mi fa fare quello che faccio di solito, poi m’innervosisco, e la giornata viene uno schifo.





Quello dall’altra parte.

Io però il treno non lo prenderei.
Insomma, dai, cosa fai, con i soldi, senza dio, ti prendi una macchina, una bella macchina, e vai, via, sciò, lontano dagli altri.
Te ne stai da solo, per un po’, e ti godi la fatica che hai fatto per essere chi sei.
Ormai sono sicuro che è un manager, di quelli importanti, che fanno le gioinvenciùr.
Sì sì, quelli che parlano troppo bene l’inglese, o altre lingue, tipo il tedesco e il francese, e se ne vanno in giro per il mondo.
Dai, adesso forse sta andando a prendere un treno per finire in Germania.
Io ci andrei in Germania, solo per poter dire di esserci stato a concludere affari importanti, da manager.
Però io so solo un po’d’inglese, e faccio un lavoro così e cosà.
Ma adesso, io sono lui, e lui non lo sa.
E per 32 chilometri, sarà bellissimo essere migliore di me.

Musica.

Facciamo un patto: diciamo che io vi do indizi, volta per volta, su chi sono.
Ogni volta che finisce una canzone, vi rivelo una parte di un segreto, e questo segreto sono io.
E allora me ne sto seduto su un treno, che scivola così, e fuori piove.
C’è un aereo, da qualche parte, e io so che ci salirò sopra.
Dopo, il cielo, e dopo di lui, qualcosa di nuovo, un giorno migliore.
Migliore di questo, di sicuro.

L’ometto.

Non è che sono razzista.
Cioè, non me ne frega niente, capito?
Però insomma, magari fai un lavoro così e cosà, uno che potrebbe fare chiunque, anche quel coglione vivo-a-casa-con-la-mamma, e poi da un giorno all’altro eccoti questi altri qui, con i loro pantaloni sfondati ed imbrattati di merda e mare.
Arrivano, zac zac zac, due menate, e sono al tuo posto.
No, al mio no, ovviamente.
Per arrivare in alto, così in alto, non ti basta fare il poveraccio, e prendere su quello che ti capita.
Non puoi mica fare il negro.
Devi essere intelligente, brillante.
Devi essere bello ed elegante.
Come questa ragazza qui.
Ecco, lei potrebbe stare con me, a digrignare i denti agli altri, a mostrare cosa vuol dire aver capito qualcosa della vita, averla fottuta a piene mani, così, BAM BAM BAM, e tutto il resto è solo tuo.
Anche tu ragazzina, devo dire, ti prenderei e ti fotterei, così, tanto per farti assaggiare un po’di me, e di quello che non avrai mai, se continuerai a sederti vicino ai negri.

La ragazza.

Mi piacciono gli occhi di quello lì, dietro le lenti degli occhiali.
Sorridono anche quelli.
Sembra non avere nulla per la testa, solo…non lo so, è come se lui fosse così tranquillo, e che il mondo si limitasse ad accompagnarlo dovunque debba andare.
Potrebbe essere un professore, ora che ci penso, con la parola facile, veloce, fluida, e la voce elegante, proprio come lui.
Una bella persona, ecco.
Diciamo che è una bella persona.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, i fantasmi che si sciacquano sul mondo, buhhhh, dicono, ed è una storia dell’orrore dell’orrore dell’errore, e adesso sono 2764 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

domenica 13 marzo 2011

una, molecola di treno.


Ci sono di quelle cose che non ci pensi, quando la mattina ti metti le scarpe, o magari ti scotti la lingua con un caffè che potrebbe non essere venuto bene.
Te ne stai lì, pianifichi l’universo intero, dividendoti fra impegni, doveri e pianeti, per obbligo, per amore, per soldi o per noia.
Ci sono di quelle cose che sono così, succedono, e magari nel frattempo ti si era slacciata la scarpa della mattina, o il caffè era rimasto sullo stomaco.
Ad ogni modo, senza starsene troppo a costruire castelli di nuvole, diciamo che c’è una persona, non una sola fisicamente, ma una di cui voglio parlare.
È uno di quegli ometti che noti solo se magari ti si siede vicino, con gli occhiali, il volto dal tempo indefinibile, una bella barba curata, elegante e cauto, e ti immagini dove possa lavorare.
Mettiamo si vada a sistemare in un posto vuoto in treno, o che accada il contrario; il treno si è liberato di un posto apposta per lui.
Adesso decidiamo che ci sono altri, che si siedono, si siederanno o lo hanno già fatto nello stesso vagone; ora sappiamo il dove, ed è la suburbana da Vignola a Bologna, 32 chilometri, circa un’ora di vita sulle rotaie abbracciate al terreno.
Piano piano possiamo capire chi, ma il perché è arbitrario, una scelta momentanea o improvvisa, umidiccia o abbagliante; il perché è una parola, un verbo, un nervo che pulsa, e si costruisce, pezzo pezzo.
Abbiamo apparecchiato  la tavola di sentimenti carnosi e grumi di mondo; tutto sferraglia, si parte, e nel ciuf ciuf si sporca il silenzio di una mattina di sempre.

L’ometto.

Mi presento, sono un ometto che ne sta qui seduto e pensa.
Queste lettere sono i miei impulsi nervosi che viaggiano attraverso le mie cellule e la mia spina dorsale, e vengono battute a macchina per noia e per diletto.
Sono quello con la barba curata, gli occhiali, l’aria elegante e gentile.
Davanti a me, una ragazza, avrà sì e no vent’anni, un profumo di università.
Seduto a fianco a me, questo tizio scomposto, lo sguardo arruffato; non parla, e tutto lui se ne sta appeso fuori dal finestrino. Mi pare puzzi un po’.
Vicino alla ragazza, uno di colore, tutto agghindato a uomo di mondo, impegnato, affidabile, con la sua valigia fra le gambe, ed un sorriso disincantato che gli arriccia le labbra.
Ascolta la musica.
Siamo in quattro, il vagone è pieno, la polvere gorgoglia da ogni dove, e tutto è merda.

La ragazza.

Sono la ragazza che odora di università.
Ho la mia tracolla piena di quaderni ricolmi di appunti e futuro, un  buon sapore in bocca e la mente stanca.
Vado a lezione e prima di leggere qualche pagina di un libro come sempre osservo il pubblico assente di questa nuova giornata.
C’è un ometto che mi guarda, più volte, dalla testa ai piedi.
Che bella barba curata, mi dico, e bella la giacca-cravatta-scarpe-taglio di capelli; uno di quelli che se gli chiedi l’ora risponde prima di tutto con un sorriso.
Poi quello che si tiene aggrappato alle figure che sfumano di fuori, abbastanza strano, e sicuramente poco interessante.
Vicino a me c’è quest’uomo, e sì, è proprio bellissimo con quel suo sorriso tranquillo e la musica che gli sta accarezzando il cervello.


Quello dall’altra parte.

Io non sono stato presentato, mi scuso.
Non sono in mezzo a quegli altri, me ne sto in disparte, con altri ancora, seduto dalla’altra parte.
Però mi piacciono le scarpe di quell’ometto, ed i suoi occhiali.
Io ho trent’anni ormai passati, e non so molto, non dico molto, ma mi piace vedere chi ha una vita che sembra migliore della mia.
La mia laurea è un pezzo di carta, perché non c’è scritto sopra che sono brillante, simpatico, bello o un genio.
In effetti, non sono niente di tutto ciò.
Faccio un lavoro così e cosà, hai presente? Niente da dire è una vitamasturbazione, cioè che spettacolo, ma nemmeno del tipo sputaci sopra.
Però mi piace vedere chi ha una vita che sembra migliore della mia, e pensare a come sarei io, se avessi davvero una vita migliore di questa qui, su cui sono seduto adesso.

L’ascoltatore.

Non sono quello che ascolta la musica, badate bene.
Anch’io me ne sto dall’altra parte, e ascolto le galassie infinite che si mettono in moto ovunque, fatte di suoni, rumori, melodie spaventate o coraggiose.
Un colpo di tosse, il giornale che si scuote di dosso le notizie, o soltanto il mettersi più comodi.
Il mondo ha questa sua colonna sonora che gli scriviamo noi, di nascosto, e poi la dimentichiamo.
Però io ci sto attento, e me la godo tutta.

Musica.

Mi presenterei, ma c’è la musica che mi massaggia il cervello.
Ripassate quando sarà finita questa canzone, e allora parleremo.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, e adesso sono 3189 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

Quello dall’altra parte.

Secondo me, potrebbe fare una cosa tipo avvocato, o manager.
Magari è ricco.
A casa avrà un MacBook Pro.
Io lo vorrei, e ci fare i miei progetti importanti. Oppure è un architetto.
Lui si inventa le città, le mette in piedi, come se creasse delle giungle di Lego.
Di sicuro sua moglie è una bella donna, e da giovane era una figa, però di quelle intelligenti, dai.
Non solo tette culo e scopami fino alla morte, no?
Però non so se ha dei figli.
Però…sì, la fede ce l’ha, eccola, e quindi è sposato.
Dev’essere bello avere una vita così, ed essere sposati. Il matrimonio non è una cosa da tutti eh, perché poi se sei uno che fa un lavoro così e cosà poi va tutto a bruciarsi, e tu non puoi farci niente, perché i soldi per rimettere a posto le cose non ce li hai.
E i soldi poi le cose le mettono pure in ordine, nelle loro caselle pulite, nei cassetti precisi e bellissimi, così che alla fine te ne torni a casa, e mangi roba buona, e ti siedi davanti alla tv.
Però io ho una tv, e lui sicuramente ha uno schermo piatto, con le immagini che brillano.
Non è che i miei giorni brillino proprio, davvero.
La ragazza.

Siamo già a Bazzano, però io non voglio leggere niente.
L’esame è lontano, ma dovevo stare in pari.
Non mi va, non è possibile.
Sennò poi non riuscirei a fare tutto quello che vorrei.
Magari aspetto ancora un po’, poi leggo.
A pranzo continuo.
No a pranzo no, mi vedo con […], poi ho lezione.
Dai adesso leggo.
Alla prossima fermata, prendo il libro.

L’ometto.

Mi gratto il mento, e sento che la barba è perfetta, lì così com’è.
Sono elegante, e mi piazzo così al vertice della catena metropolitana, mi guardano e sanno che sono in alto, lontano da altri.
Non sono di quelli che masticano polvere e pozzanghere; io mi vesto di successo e me ne fotto di tutti e tutto, se voglio.
È tutto abbastanza semplice, lo tengo chiuso nella cartella di cuoio che tengo fra i piedi.
Poi c’è quell’altro che se sta dall’altra parte, mi guarda fisso, ed io subito gli controllo le scarpe; si può capire tantissimo dalle scarpe che indossi.
Possono raccontarti immediatamente come vorresti vestirti, chi vorresti essere, in cosa vorresti trasformarti.
E quello lì ha delle Nike Classics dai colori squallidi e stupidi, e la linguetta si vede da sotto quei jeans anonimi, e, dio no, ha i lacci lunghi e quel nodo da boy-scout.
Aspetta, aspetta, non è finita: guarda quella felpa da vivo-a-casa-con-la-mamma, con la lampo, il collo di felpa, e la giacca a vento da prete.
Non va affatto bene, e allora mi metto meglio di profilo, e faccio vedere il colletto della mia camicia, di un bianco così innocente da sembrare proprio finto.
Tu una camicia così non te a puoi permettere, vero?
E queste scarpe? Le hai viste bene?
Non appartengono al tuo mondo, ed io non sono del tuo mondo.
Osservami bene, morditi il cuore, e fottiti d’invidia.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, e adesso sono 3166 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.