domenica 20 marzo 2011

tre, molecole di treno. Bum.


L’ometto.

A questo punto metti sull’altare, o sulla bilancia, il mondo, ed il suo stomaco tutto infetto.
E pensi: che schifo, io ci sto dentro.
Ed è una cosa che vedi sempre, da quando più o meno sei nato.
Il problema è che se manchi il parto, e finisci da qualche parte dove ancora si parla a banane, è la fine, perché sarai sempre e soltanto una manciata di fango.
Cioè, è una questione di dove e quando, capisci? E basta poco: tua madre a gambe all’aria, e poi tu che sei coperto di appiccicume rosso mieloso.
Come quello con la giacca sportiva, qui, che mi ignora, o fa finta. Lo so che si è accorto di me, che lo guardo, che lo indago, e sì, lo giudico.
Perché io posso giudicare, e posso pure avere ragione.
Perché io ho pagato il mio dove, io ho pagato il mio quando, sono stato beatificato dalla piccolezza e dalla tristezza che tanti sudano da ogni fibra muscolare.
Mi piace sapere di essere migliore di molti di voi.
Mi piace poter riempirmi le pupille di odio, di disgusto, di bava lucida, e nonostante questo gridarvi addosso non rompetemi le palle.
Statemi lontani.
Amatemi.
Voletemi.

L’ascoltatore.

Non si può contare la strada da qui a Bologna; cosa sei, scemo?
E mi disturba proprio così tanto.
Perché non è tutto come dovrebbe essere.
Perché non è tutto come dovrebbe essere?
Passi trent’anni della tua vita a correre a pieni polmoni, e poi ti arriva sul groppone un acciacco accidentale, che è la vecchiaia, e che cosa devi fare?
Ti riduci a fare guerre di briscole? O ad aspettare Pippo Baudo un’altra volta?
Ti abbronzi con la tv, o leggi? Tanto lo sai che il tuo corpo ha iniziato a viaggiare piano da solo, e ti svegli alle cinque anche se vai a letto alle otto di sera.
Almeno cago spesso, sennò sarei veramente uno schifo.
Però poi io non ce la faccio a starmene così, bicicletta accanto, a sfregarmi il tempo ed il cervello mentre guardo i lavori stradali.
E non voglio nemmeno starmene rinchiuso in un qualche ospizio, a sbavare per l’amore di qualcuno che tanto non verrà mai.
Perché si vergogna.
Allora sai cosa faccio tutte le mattine?
Io prendo e me ne vado, scappo, salgo sul mio treno, e ascolto la sua musica, senza sosta.
Però sono pur sempre un vecchio, un prigioniero politico.
E le mie sbarre sono sempre gli stessi giorni uguali.
E mi piacciono, i giorni così.
E quel tipo che conta, ecco, lui ha proprio rotto le palle.

La ragazza.

Ma sta piovendo…?
Che palle.
[…] mi viene a prendere in motorino, e piove.
Vabbè. Sfiga.
Prendiamo il libro e…MA DAI! Mi si è rotta la lampo…ma…così!
Che palle.

Musica.

Ci siete, no?, mi seguite?
C’è un dove, un dove strano, che conosciamo tutti.
C’è un dove che deve cambiare, essere sostituito.
Io avevo il mio dove, avevo il mio quando.
Non ne ho più voluto sentir parlare.
Ne ho trovati di altri, ma per un po’mi hanno deluso.
Adesso ne ho di nuovi, di brillanti, così, lontani.
Dal resto.

Quello dall’altra parte.

Se fossi così, amerei.
Amerei tutti, amerei tutto.
Amerei, amerei soltanto, non perderei troppo tempo.
Piacerei a tutti.
Tutti vorrebbero essere come me.
Tutti vogliono essere me.
Mi amerebbero, e io amerei loro.
Questo fai quando puoi comprarti dio.

Il contatore.

 Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, si arriva ci si allaccia le scarpe si abbracciano le tombe si incastrano i bernoccoli delle idee, e adesso sono 2126 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

La ragazza.

Non ho letto niente, ho la zip rotta, fuori piove, e sarò in motorino, l’esame è a breve, voglio uscire domani sera, farmi un po’di vita come la preferisco, e non pensare a niente. C’è altro?






L’ometto.

Quando sei come me, quando sei me, puoi odiare tutti.
Non ti serve adorare altre bocche, altre facce.
Qualcuno vorrà per forza te.
E quindi è così facile starsene sopra il resto, a brucare le vostre speranze, schizzandomi in vena immagini celebrali di voi con le vostre vite e mogli-culo-cellulite-tette-a-ginocchia, di voi mediocre-felice-mangia-merda, sbroda-figli-a-caso, incazzoso-politico-mollusco, e altre categorie da enciclopedia delle scienze umane.
È facile odiare tutti, e tutto, così, un po’per noia, un po’per divertimento.
Leggere in un occhio qualunque la stessa domanda, che cosa fai per essere così?
Come fai ad avere la testa così vuota di polvere, il cuore così povero di vetro, il tempo così pieno di luci?

Musica.

Non so bene ancora cosa dirvi di più.
Magari potrei prendere tempo lisciando la mia giacca sportiva.
Pensando al fatto che la camicia che indosso mi piace.
Sapendo che l’uomo con la barba elegante è un bastardo, e mi odia.
Oppure potrei semplicemente vedere se riesco a sincronizzare la prossima canzone con la pioggia.

L’ascoltatore.

Siamo quasi in stazione centrale, ed oggi non è stato come ieri, e questo mi fa arrabbiare.
Non è divertente.
È come sapere di essersi dimenticati di nuovo le chiavi di casa; vuoi entrare, sai già tutto il resto, ma non puoi.
Ed io oggi non riesco a entrare, non riesco a passare, attraverso di me, e attraverso il treno.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, quell’ometto che capisce che conto non capisce perché conto ed io conto perché dopo un po’sulla mia tavola periodica c’è il simbolo di qualcosa che non capisci, e adesso sono 1854 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

Musica.

Spengo le note che ho nella testa, metto via l’iPod.
Con la mano, nella tasca interna scivolo sulla carta strana del mio biglietto aereo.
Ho un contratto che dice chi sono, che vivo, che respiro.
Ho un contratto che dice che sono stato abbastanza simpatico, brillante, per meritarmi un altro domani, con un sapore diverso.
Sono scappato da un quando che mi faceva paura.
Sono scappato qui, solo per riprendere fiato.
Ho usato libri come cuscini, e ho imparato a dire di no.
Ho imparato a chiedere perché.
Ma anche qui mi hanno preso in giro, mi hanno lasciato un cartello attaccato alla porta dei tagli che ho nella memoria, e sopra c’è scritto mi dispiace ma non c’è bisogno.
Però non potevo scappare di nuovo, perché il mio dove ormai era lontano.
Ho solo cercato di colorare un po’ i contorni.
Qualcuno poi mi ha risposto, e mi ha detto posso prestarti un pezzo di giorno, e farti salire su un aereo.
Adesso me ne vado, sai?
Però non scappo più.

L’ometto.

Il treno che sferraglia, se ne torna nella pancia fredda della stazione, ed il negro si alza, la valigia e tutto, e dietro la ragazza, quella che BAM BAM BAM se mi guarda ancora un po’me la porto in bagno e le sorrido di più mentre si toglie i pantaloni.
Il coglione vivo-con-la-mamma si fa da parte, osanna nell’altro dei cieli per il suo dio a chilometraggio limitato, io gli sorrido e gli sputo sul cuore, nell’anima, e penso è bello fare il pubblicitario, sai sempre come prendere tutti per il culo nel modo più dolce ed incredibile.

Il contatore.


Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciufnononono è che siamo morti sulle rotaie con il silenzio nelle vene ma non è qui non è qui è più avanti che la scarpa ti si slaccia e allora sono ancora 750 metri quando poi Bologna muore.

Ecco, lo dicevamo fra una riga ed una sigaretta.
Non si può mai dire, si riassume così, no?, se ti perdi un pezzo e vedi solo quello che ti capita dopo.
Magari allora prendiamo qualcos’altro e qualcun altro, senza bene renderci conto del come.
Il quando e il dove però ci sono.
C’è la pioggia, che fa un gran casino, che bagna tutti, senza pensarci.
Sei a Bologna, dopo un treno che ha nitrito per 32 chilometri.
Allora c’è Piazzale Medaglie d’Oro, con gente che si sposta, che migra verso le proprie caverne urbane e riscaldate, ma loro non contano, non ci interessano.
Non sono le molecole del treno.
Di quelle che non puoi accostare, altrimenti: Big Bang.
Le nostre sono quelle lì, guarda, a sinistra, che non si conoscono ma non lo sanno.
Magari succede che una ragazza ne saluta un’altra, ridono, lei le mette in mano un casco, e salgono su un motorino verde che s’intona con l’universo.
Magari succede che uno continua a contare e non guarda nessuno, solo per terra.
Magari succede che uno vorrebbe ascoltare e lo segue un po’stranito.
Magari succede che con la valigia aspetti un taxi da una parte, perché un aereo atterrerà in tuo onore.
Magari succede che ti avvicini pensando negro e gli vuoi rubare il taxi perché lui non vola così in alto da avere la barba curata.
E magari succede che proprio in mezzo alla strada chi conta finisce i numeri, si pianta a terra, si volta e urla.
E quello chi ascolta ha il cervello che per un attimo si spegne, così salta indietro e si spaventa, come i poveri vecchi.
C’è un motorino verde che corre sul bagnato, con una ragazza che non ride più.
Frena, frena veloce, ma non basta, con la pioggia legnosa che ti martella tutta, e scivola con l’amica da una parte.
Se stai attento, ti ricordi di una zip rotta che salta, seccata, ed un libro indignato - per una buca ed il freno - se ne zampetta via, vualà, piroetta in aria e si apre senza pudore.
Spat!, è il suono che fa quell’esame che si schianta proprio così sul taxi che seguiva il motorino verde.
Chi guida non è solo di passaggio, un fantasma, una parentesi di vuoto.
È un coglione-che-(non)-vive-con-la-mamma, e le sue mani si fanno di nebbia, il volante si divincola con forza, e nessuno dei due vede niente.
Così poi finisce che vai nel panico, e non freni per davvero e chissà perché, anche se guidi da anni, acceleri da vero stronzo.
E magari non lo sai, ma vai a schiantarti contro chi si è comprato dio, che pensa subito le scarpe saranno tutte sporche.
E magari non lo sai, ma c’è chi aveva la giacca sportiva, e perderà per forza l’aereo, se prima non avrà raccolto tutto il suo sangue da terra.
Ci sono di quelle cose che non ci pensi, la mattina.
E ci sono di quelle molecole che quando s’incontrano, Big Bang.

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