lunedì 14 marzo 2011

due, molecole di treno.


L’ascoltatore.

Non prendetemi per pazzo, ma dallo sguardo di quello che ho davanti, credo di aver appena sentito il suo orgoglio gocciolarsene via.
O forse è solo per la pioggia sul finestrino.

Musica.

Non ho molto tempo per intrattenervi, giusto quello che si condensa fra una canzone e un’altra. Cosa volete che vi dica?
Avete presente quello che mi si è seduto davanti, con la sua bella barba, la sua bella faccia, la sua bella vita? Ecco.
Continua a guardarmi, un po’di nascosto, sperando che io non me ne accorga.
Però lo vedo, lo vedo e lui non mi piace.
Non mi piace per il modo in cui squadra la ragazza, o per come si mette in posa per quello dall’altra parte.
Non mi piace neppure quello che gli vedo negli occhi.
Ma non m’importa: io ho la mia musica.

L’ometto.

Ma guarda quello che faccia.
No, davvero, guardaci bene.
Con quella giacchetta sportiva, ma che cosa vuole?
Dove crede di vivere? Nel suo paese, nel suo cazzo di mondo?
Non è roba sua, è roba mia.
Ci sto io sulla montagna, a sputarvi a tutti in testa.
Fottuto negro.

La ragazza.

È passata un’altra stazione, il libro sta sempre lì a dormire nella tracolla.
E questo qui che mi guarda sempre, con i suoi occhiali eleganti.
Mi mette simpatia, perché piano gli si disegna un sorriso quando incontra il mio sguardo.
Non lo so, ma mi sembra di potermi fidare, così, dal nulla.
A voi no?

Quello dall’altra parte.

Chissà se crede in dio.
Boh, io se avessi soldi, non so se ci crederei.
Tanto, tutto quello che mi renderebbe felice me lo posso comprare, no? Con il mio MacBook Pro, ehi, andrei tipo dagli altri e direi: oh, ma hai visto che roba?
E poi con le scarpe eleganti, fatte su misura, come le sue, me ne andrei a passeggiare per i Giardini Margherita, e alle persone sorriderei sempre, perché c’ho i soldi in tasca.
Ho una moglie figa, non tutto sesso, e la tv al plasma, e i film in prima visione.
Non è che dio mi potrebbe dare qualcosa di più. Anzi, non è che mi abbia mai dato qualcosa fino adesso. Vabbè che non gliel’ho chiesto, però lui ama tutti allo stesso modo, no?
No?
E allora perché lui può avere una moglie figa, e io no?
Perché quella bella cartella in pelle marrone chiaro?
Sono sicuro che abbia anche un cellulare di quelli assurdi, che fanno di tutto.
Che bisogno hai di dio quando ti puoi mettere i desideri nel portafogli, e scappartene via?

Passaggio.

Non badate a me, sono di passaggio.
Una comparsa, una macchietta.
Cerco posto, non ho un nome, non ho un carattere.
Non sono nessuno, e tutti i sedili sono occupati.
Passo davanti ai presenti, sfilo sulla passerella di questo treno, una modella di nullità.
Nessuno si alza e mi dice siediti qui; nessuno ricambia il mio sguardo.
Sono una parentesi che si riempie di vuoto, e si chiude in silenzio. Addio.
Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, passa la donna, nessuno la vede, il mondo dei fantasmi, che nessuno li vede, e adesso sono 2914 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

L’ometto.

Lo sai perché prendo il treno, tutte le mattine?
Perché ci metto meno? State pensando questo? No, non è vero.
Tanto io posso andarmene a lavorare quando voglio, come voglio. Ho una macchina, ma non la guido spesso, perché non mi piace.
Non sopporto infilarmi nel traffico, sudare se fa troppo caldo, e sentirmi la camicia che mi si appiccica sotto le ascelle. Odio dover aspettare che qualcuno faccia i propri comodi, no, che metta la freccia, che giri, che ritorni, che se ne vada.
L’asfalto è solo un deserto di insetti, che si inseguono, gridano, sgridano, sbadigliano, sputano.
Ed io potrei benissimo essere uno di loro, no? Un insetto, una blatta di pus con le mie zampette rigide, che striscia nel cadavere schifoso della città.
Gnam gnam gnam.
Allora prendo il treno, e cerco bene dove sedermi.
Scorro fra i volti che sono già comodi, felici della loro squallida normalità, e cerco i più ignobili, i più anonimi.
E mi metto sempre i vestiti migliori, più costosi, più eleganti, e poi mi vado a mettere in mezzo a loro, che sporgono il loro collo incassato fra le ossa pesanti della stupidità, solo per assaggiare un po’d’invidia.
Per me, solo per me.
Niente insetti, niente vermi, o scarafaggi.
Niente clacson, fumo, semafori.
Io mi siedo, e aspetto, perché prima o poi qualcuno si accorgerà di me, e capirà che sono diverso, che sono in alto, così in alto.
E sarò il suo dio, per 32 chilometri.

La ragazza.

Adesso mi da fastidio, però, quello lì.
Sempre con gli occhi fissi.
Che cosa guarda?
Muove pure le labbra. Sembra…ma sta contando?

L’ascoltatore.

Quell’uomo sta contando.
Sottovoce.
E mi sta rovinando tutta l’opera del treno, la grande ouverture della mattina, perché se ne sta lì, a biascicare i suoi numeri, ed io mi distraggo.
Cazzo, se non mi fa fare quello che faccio di solito, poi m’innervosisco, e la giornata viene uno schifo.





Quello dall’altra parte.

Io però il treno non lo prenderei.
Insomma, dai, cosa fai, con i soldi, senza dio, ti prendi una macchina, una bella macchina, e vai, via, sciò, lontano dagli altri.
Te ne stai da solo, per un po’, e ti godi la fatica che hai fatto per essere chi sei.
Ormai sono sicuro che è un manager, di quelli importanti, che fanno le gioinvenciùr.
Sì sì, quelli che parlano troppo bene l’inglese, o altre lingue, tipo il tedesco e il francese, e se ne vanno in giro per il mondo.
Dai, adesso forse sta andando a prendere un treno per finire in Germania.
Io ci andrei in Germania, solo per poter dire di esserci stato a concludere affari importanti, da manager.
Però io so solo un po’d’inglese, e faccio un lavoro così e cosà.
Ma adesso, io sono lui, e lui non lo sa.
E per 32 chilometri, sarà bellissimo essere migliore di me.

Musica.

Facciamo un patto: diciamo che io vi do indizi, volta per volta, su chi sono.
Ogni volta che finisce una canzone, vi rivelo una parte di un segreto, e questo segreto sono io.
E allora me ne sto seduto su un treno, che scivola così, e fuori piove.
C’è un aereo, da qualche parte, e io so che ci salirò sopra.
Dopo, il cielo, e dopo di lui, qualcosa di nuovo, un giorno migliore.
Migliore di questo, di sicuro.

L’ometto.

Non è che sono razzista.
Cioè, non me ne frega niente, capito?
Però insomma, magari fai un lavoro così e cosà, uno che potrebbe fare chiunque, anche quel coglione vivo-a-casa-con-la-mamma, e poi da un giorno all’altro eccoti questi altri qui, con i loro pantaloni sfondati ed imbrattati di merda e mare.
Arrivano, zac zac zac, due menate, e sono al tuo posto.
No, al mio no, ovviamente.
Per arrivare in alto, così in alto, non ti basta fare il poveraccio, e prendere su quello che ti capita.
Non puoi mica fare il negro.
Devi essere intelligente, brillante.
Devi essere bello ed elegante.
Come questa ragazza qui.
Ecco, lei potrebbe stare con me, a digrignare i denti agli altri, a mostrare cosa vuol dire aver capito qualcosa della vita, averla fottuta a piene mani, così, BAM BAM BAM, e tutto il resto è solo tuo.
Anche tu ragazzina, devo dire, ti prenderei e ti fotterei, così, tanto per farti assaggiare un po’di me, e di quello che non avrai mai, se continuerai a sederti vicino ai negri.

La ragazza.

Mi piacciono gli occhi di quello lì, dietro le lenti degli occhiali.
Sorridono anche quelli.
Sembra non avere nulla per la testa, solo…non lo so, è come se lui fosse così tranquillo, e che il mondo si limitasse ad accompagnarlo dovunque debba andare.
Potrebbe essere un professore, ora che ci penso, con la parola facile, veloce, fluida, e la voce elegante, proprio come lui.
Una bella persona, ecco.
Diciamo che è una bella persona.

Il contatore.

Ciufciufciuftrenotrenotrenociufciufciuf, i fantasmi che si sciacquano sul mondo, buhhhh, dicono, ed è una storia dell’orrore dell’orrore dell’errore, e adesso sono 2764 metri a Bologna, ciufciuftrenociuf.

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