domenica 13 febbraio 2011

(sub)urban III.


M. spia dalla finestra qualcosa che si ostina a chiamare persone. Controlla l’orribile orologio a forma di cane che ha sulla scrivania; il libro è aperto a pagina centoquarantasette da due giorni.
Lei gioca con un indelebile ozioso, ormai scarico.
Sono le tre e venti, ed il sabato sembra essere soltanto un sabato.
Il computer riposa ronfante sul letto disfatto, in mezzo a dell’altro ciarpame quotidiano.
Per un momento M. invidia A. che vive da solo dalle parti di porta Castiglione.
Non ha stupidi coinquilini a fargli stupide domande.
Non ha colazioni imbarazzanti e noiose.
Non ha pranzi risicati e litigati, o pile di piatti che trasudano pigrizia e sporcizia.
Lui può fumare, ed ascoltare la musica che preferisce; può portarsi il mondo dietro, o lasciare il mondo fuori.
Può gridare e sgridare il vuoto, e troppo altro.
E invece a lei tocca quel trilocale con I., che si fa vedere anche troppo spesso, e parla anche troppo spesso.
Però costa così poco, e va bene così, no?
Alla fine, è vicina a Porta San Donato, vicina alla facoltà, al centro, alla vita.
Bella merda.
Scosta lo sguardo dal nugolo di testoline che si arrabattano laboriose inseguendo il frastuono del traffico, ipnotizzati come stormi di pensieri senza età.
Il pacchetto di sigarette vuote di fianco al libro è un cadavere senza importanza, per un momento potrebbero piangere di pietà.
Si alza, va verso la triste libreria IKEA e apre un piccolo astuccio giallo, dentro ci sono i soldi per la settimana. Le sono rimasti centoventi euro, com’è stata brava.
Conta di spenderne quaranta quella sera, e tenersene almeno sessanta per la spesa di lunedì.
Il resto, improvviserà.
Piroetta all’improvviso, felice, senza bene sapere come mai.
È una scossa, dispettosa, proprio dietro le spalle.
Sì, è felice.
Poi passa tutto, e si ritorna al resto che rimane intorno.
M. si risiede, e ricomincia a leggere pagina centoquarantasette.

D. insegue gli spettri dei doveri fra le corsie della Coop, disperatamente alla ricerca del latte fresco.
Ripassa ancora una volta gli appunti che ha sapientemente lasciato appesi al frigorifero.
Il pane, la frutta, la pasta, il passato, la pancetta a dadini, il sale grosso, il sapone per il bagno e per i piatti, una coscienza a posto, un bacio in più, più caldo, più dolce, più vero.
Gira l’angolo, ancora niente.
Potrebbe gridare.
Ma dove lo tengono il latte? Ruota la testa angosciato, il cestello di plastica scricchiola mestamente, guaisce, gli fa male alla mano.
Doveva prendere un carrello.
Comincia ad innervosirsi.
Potrebbe comprare un litro di latte fresco dal pakistano all’angolo sotto casa, ma l’ultima volta era scaduto da due giorni, e a N. era venuto il caghetto.
Sì va bene, molto divertente, ma poi te la racconto tutta per pulire il bagno.
Intravede le casse, in lontananza, il loro bip bip sembra una nenia rassicurante, tra  poco sarà fuori, inforcherà la bicicletta e ritornerà a nascondersi ancora per un po’.
L. non gli ha ancora risposto al messaggio, forse si è offesa.
Ma perché avrebbe dovuto? Non le ha quasi parlato per tutta la sera.
E forse è per quello che si è offesa, magari lui non avrebbe dovuto fare tanto il sostenuto.
Appena torna a casa le telefono, si dice.
Tanto ormai è fuori.
Però poi vede il latte.
Incastrato.

S. tiene le mani ben premute dentro le tasche del giaccone mentre attraversa la Piazzola, evitando la folla affamata di qualcosa esposto nelle bancarelle.
Guarda sempre bene i venditori, pronto a coglierne la disattenzione furtiva, magari per allungarsi e portarsi via qualcosa, come un paio di occhiali che perderà troppo in fretta.
Si sente chiamare, si volta pacatamente.
È G., un amico di M.
Lo saluta, gli dice oh bella.
S. sorride appena, non ha troppa voglia di parlare e di vivere. Deve ancora comprarsi le scarpe nuove.
G. sta blaterando, S. annuisce facendo finta di ascoltarlo, poi si decide a seguire i suoni che vengono sputati dalle labbra dell’altro, che gli fa oh senti noi stasera usciamo e siamo tipo io M. e magari anche quelli che c’erano ieri.
Tu che fai?
Che cosa dovrebbe rispondere S.?
Spendo i soldi che ho preso alla tizia di ieri, non mi ricordo come si chiama.
Poi vedo se riesco ad incrociare il mio spaccino.
Magari mi faccio una birra se mi avanzano dei soldi.
Passo da casa, prendo altri soldi.
Me ne fotto di te, del mondo, di M., di dio e di Bologna.
Si gratta il braccio, guarda uno straccio di cielo.
Boh senti voi ditemi qualcosa, magari vi raggiungo.
Poi si volta, e lascia G. e la Piazzola a consumarsi nel giorno.

A. decide di passare per casa, vuole cambiarsi, sembrare elegante per quella sera.
Apre il portone, l’eco delle scarpe sulle piastrelle dell’ingresso lo accolgono impietosamente.
La casa apparteneva a sua nonna, a cui però il cervello ha deciso arbitrariamente di fottersi, così, da un giorno all’altro.
Per un po’è andato a trovarla, la tengono a Villa Chiara, a Casalecchio. Poi, si è troppo vergognato.
Non certo per lui, ma per la donna che lo accompagnava per il centro quand’era piccolo, e passavano dal fornaio, la domenica, dopo la messa.
Lei gli comprava i biscotti al sesamo, buoni quelli, o magari erano al mais.
Non ha importanza.
Adesso lei osserva il vuoto che ha sempre in fondo agli occhi, e una lenta bava le imbavaglia il mento e la giornata, mentre ogni tanto qualche distaccato infermiere le poggia una mano in mezzo alle gambe, a vedere se se l’è fatta addosso.
Se magari succede, vedi quello che, disincantato ed eroico, dice cazzo, ancora, piano piano fra i denti.
E una volta A. gli ha urlato addosso tutta la sua rabbia, si è svuotato del’acido che gli bruciava troppo fra le palpebre, ha rischiato di essere buttato fuori.
Sul 20, prima di scendere in Saragozza, ha pensato di piangere, e poi ha cambiato idea.
Adesso non va più a trovare la nonna, e aspetta solo che gli dicano è morta, per storcere le labbra e dire oh, come se magari lei davvero se ne sarebbe potuta accorgere.
Adesso è la porta che gli dà il benvenuto, il salottino simpaticamente gli fa l’occhiolino, e la cucina è quasi in ordine.
E tutto si annega in un silenzio oleoso, furbo, crudele.
A. invidia M., per i suoi coinquilini, e per i loro pranzi, e le loro cene, e il loro parlottare continuo.
Loro possono parlare vivere litigare e rincorrere le giornate salutandosi tutte le mattine.
Ma adesso lui deve muoversi, o farà tardi e non concluderà niente nemmeno stasera.

Ecco di nuovo L., che si era persa fra una doccia ed un’attesa davanti al cellulare.
Ha riletto il messaggio troppe volte per non sapere che potrebbe farlo un’altra volta.
Ehi, mi querita, spero tu non ci sia rimasta male se non ti ho accompagnata a casa…ti va di uscire stasera con gli altri? sappimi dire ciao ciao.
All’inizio, L. si è arrabbiata.
È tutto quello che sai dirmi? Tutto quello che potresti darmi? Qualche parola, messe di qua e di là, in ordine, pulite, asettiche?
Poi si è sentita sollevata, perché evidentemente D. non ha ancora saputo niente di S.
Poi ha deciso d’ignorarlo, di fregarsene di tutto, di chiamare altri amici e di uscire con loro, di non bere troppo, di fare le cose per bene, magari non facendo tardi e svegliandosi presto il giorno dopo.
Poi il cellulare è suonato, e si è rotto il vetro dei pensieri.
L. riordina i frammenti con calma, temporeggia, poi risponde.
Pronto?
Ciao sorride una voce dall’altra parte.
Ciao D…come va…perché mi chiami? (non avere fretta, non avere paura, non arrabbiarti, non sospirare, non desiderare e soprattutto prova ad aspettare)
Ma niente, è che ti avevo mandato un messaggio però non hai risposto, allora ho voluto telefonarti…ti disturbo?
No (sì)…non stavo facendo niente di particolare (no, forse non disturbi per davvero)…ho letto il messaggio e…cosa avreste organizzato per stasera?
Ah, niente di che, alla fine volevamo andare a mangiare in un’osteria in via Borgonuovo con altri di facoltà che ospitano degli amici inglesi, e poi fare un giro per via Zamboni o per il centro…vieni?
(aspetta, aspetta…forse non vuole te, magari sei una presenza, un’amica, qualcosa, ma non vuole te, non per davvero).
Sì dai…a che ora? (troppa, troppa fretta, cazzo)

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