giovedì 10 febbraio 2011

(sub)urban II.


A quel punto lui si siede, e se ci fosse una canzone, potrebbe essere una qualsiasi, ma preferibilmente intrigante.
Posa uno sguardo distratto su chi gli sta intorno, conosce M., e se lo fa bastare.
Potrebbe (o dovrebbe) dire ciao, ma non lo fa.
Esordisce con e allora?, inclinando di poco la testa da una parte.
Adesso si pensa: ci siamo, è la solita cosa. Di bella famiglia, ma drogato, si redime, cambia il mondo, o il mondo cambia lui, ed il suo volto avrà colori diversi e più belli.
Non avete capito molto, allora.
S. è quello che è; non è di buona famiglia.
Non è una buona persona.
Questo lui lo sa bene, ma non lo sanno gli altri.
Gli ruotano attorno, come se orbitassero fra le pause delle sue parole.
E lui parla, parla, ma quante cazzate.
Quante cazzate, pensa sempre.
Comodo e presuntuoso, lascia che gli si rivolgano le solite domande a cui sa sempre come rispondere.
Ci mette poco a vedere che L. ha bevuto troppo, e che guarda sempre verso D. ogni volta che vorrebbe far ridere; ne cerca il consenso, e forse ha troppa paura di sbagliare.
D. sta al gioco che lui stesso ha creato, perché lui è così, gioca spesso e gioca sempre, ma magari poi perde.
A un certo punto, chissà perché, si ritrovano a parlare di politica, sentendosi pieni di belle parole e belle idee.
Ma, ehi, ecco, parla S., tutti zitti, e lui che sciorina lento e sicuro metafore imparate da qualcosa che ha letto una volta ed un po’di morale social-comunista.
Quante cazzate, pensa.
Ma, ehi, ecco, tutti approvano, magari ribattono, ma si lasciano convincere, piano piano.
Sarà l’alcool.
Sarà il giorno.
Sarà il posto.
A. non ci crede troppo, a dire il vero, ma non gli danno troppo retta, perché spesso si impone per capriccio o per l’amore che ha della sua voce.
Si scivola via nella notte fredda, si fanno  le tre, si beve ancora per un po’.
D. sorride sempre, L. lo cerca sempre, ma non lo trova.
S. potrebbe conquistare il mondo con la sua pelle tesa e gli occhi gialli.
P. lo ascolta ancora; è arrivato e subito sapeva cosa dire e cosa fare. Lui sì, avrà tanti amici.
M. pensa a quello che pensava anche prima, solo un po’più offuscata e confusa dai bicchieri vuoti che si è lasciata indietro.
È un venerdì sera, e ci sono le solite luci ed i soliti colori, magari non proprio gli stessi odori.
Dopo mezz’ora S. si sta scopando L., che non sa perché ha accettato lui l’accompagnasse a casa;
 e si è fatta riempire la testa di quelle sue parole troppo piene e troppo vuote, e si è fatta riempire il naso del profumo che usa, e si è fatta riempire la bocca di baci sapienti che l’hanno fatta sdraiare sul suo letto di via Mascarella.
D. non lo ha capito che se l’avesse portata lui forse sarebbe stato diverso, ma D. gioca spesso e sempre, ma questa volta ha perso.
A., sul notturno che percorre i viali abitati dal silenzio e visitati da qualche puttana e tanti naufraghi, pensa che domani non vivrà un’altra serata così schifosa.
Degli altri, P. ed M., dimentichiamocene per ora, e dormiamoci su.

S. si sveglia presto, fra le sue lenzuola in una sua giornata. Riflette bene su cosa indossare, e sa che andrà a comprarsi le scarpe nuove, quelle belle, che ha intravisto ieri passando davanti Pull & Bear. I soldi ce li ha; li ha presi dalla borsa di L., dopo averla lasciata addormentata (?) verso le cinque del mattino.
Come prima cosa, mette bene in ordine le priorità.
Fa una lista mentale, e poi la perde subito.
Cucchiaio, limone, accendino, dove ho messo la bustina?, nei pantaloni.
È un attimo, più o meno.
La luce della fiammella fa qualche piroetta, com’è languida e sensuale, una dolce amante per segreti più nascosti.
La siringa, cazzo, bisogna sterilizzarla.
Fai bollire l’acqua, si smaglia tutta la routine, è snervante.
S. tamburella con le dita sul tavolo color anonimo.
No no così non va.
Toglie l’acqua dal pentolino, la mette in una tazza, imposta il microonde, due minuti, TING, la pappa è pronta.
Qualche colpetto sull’incavo del braccio, un laccio di gomma ben stretto.
Llllà, com’è tutto tanto semplice.
Buon appetito, S.

Da un’altra parte, D. prende in mano il cellulare, vede che sono le undici e quaranta, avrebbe dovuto alzarsi per studiare, ma è sabato, è ora di riposarsi.
Da cosa?
Indeciso sul da farsi, comincia a scrivere un messaggio a L.; riparte un paio di volte, non lo convincono per davvero le parole, pensa pure di rinunciare, poi no, arriva in fondo e lo invia.
Se ne pente per qualche momento, poi si alza e va a pisciare.

L. sente il cellulare vibrare sul comodino. Non vuole scollare il viso dal cuscino, le tempie le pulsano, ha un sapore amaro in bocca.
Le gambe sono pesanti, doloranti.
Tutto odora di vecchio e patetico.
Cos’ha vissuto quella notte, non lo vuole veramente sapere.
Se D. lo venisse a sapere?
Stupida, lo saprà di sicuro.
Ma lui S. non lo conosce.
Glielo dirà M.
Che troia, non sa stare zitta.
M., una troia? E tu allora?
Ero ubriaca.
Troppo comodo.
Ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca ma quando lo hai fatto entrare lo sapevi o no quello che stavi veramente facendo? ma ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca ero ubriaca e adesso basta.
Il cellulare vibra ancora, lei con uno sforzo incredibile si allunga sopra il piumone unto di vergogna e cerca di afferrarlo, ma le cade per terra.
Mormora qualcosa, poi si gira dall’altra parte, e ricomincia a dormire.

A. si sta facendo la doccia, per sciacquare via un disagio che da tanto lo accoglie ogni volta che sposta le lenzuola. Il balsamo è finito.
La cosa lo innervosisce profondamente.
Scosta la tendina di plastica, esce nudo e fradicio a vedere se ce n’è dentro al mobiletto sopra il water. Magari adesso entra qualcuno e lo trova così, inconsapevolmente fragile, solo e triste.
Però trova il balsamo e ricomincia a lavarsi.

P. come prima cosa aspetta che il caffè sia pronto, poi accende il computer e si connette a Facebook.
Controlla il numero degli amici, ottocentoventinove, e la cosa lo rincuora.
Vorrebbe aggiungere S., ma all’improvviso si rende conto con orrore che non sa come si chiami.
Cazzo, sussurra.

M. non fa niente di davvero particolare, quindi possiamo tralasciare la sua vita per qualche riga ancora.

C’è qualcosa di incredibile nel modo in cui chiunque viva la propria città.
Come se non fossero che mattoni messi lì apposta, con grande cura, ma senza troppo stare a pensarci.
Così passeggi per vie che conosci intimamente, le possiedi sotto le scarpe, le lasci indietro calde e spaesate, pronte ad accogliere ancora centinaia e centinaia di amori sciocchi e superficiali.
Poi c’è questo sole freddo con la sua luce che ridisegna le ombre ed i contorni e tutto sembra inutilmente felice.
Insegue pigramente volti che incontrano volti, vite e vite che si ritorcono e si abbandonano al cemento, ignorandosi placidamente e con orgoglio.
Magari prendi un caffè, o una pasta, o te ne stai come un coglione ad aspettare l’autobus; poi forse ti cali una dose di distacco calcandoti bene nella testa la musica che tieni segregata nel taschino, e che ti somministri appena hai paura che la folla ti ingoi senza pietà.
Potresti scendere le scale, o salirne altre, suonare i campanelli di migliaia di sconosciuti, o aspettare il TLAK confortante di un mondo che ti si apre docilmente.
Oppure ti fai il nodo alla cravatta, ti allacci le scarpe, sputi un chewing-gum, ti accendi una paglia e ti si coagulano i i sogni i propositi le promesse e le parole in fondo alla testa e sulla punta delle labbra.
Se sei fortunato, baci, ami, abbracci, pranzi con qualcuno, o ti rifugi in un libro, lasciando che sia la carta ad animare vite migliori o peggiori della tua.
A. entra da Feltrinelli, si perde a guardare i titoli dei libri, con la coda dell’occhio intravede una che è in corso con lui, riccia, occhi scuri, pieni di tutto.
Le si avvicina, spia i nomi degli autori che sta guardando, lei si volta, lo riconosce, lo saluta ehi ciao, lui ricambia con un sorriso, indica il libro che ha in mano, dice è molto bello.
A lei si accendono le labbra, scopre un poco i denti, ah io non lo so, me lo hanno consigliato, mi hanno detto che è molto interessante e molto poetico.
A. si abbandona a una declamazione di sapere critico; parla di poesia, di estetica, di arte.
Lei lo ascolta interessata, risponde, poi fa è tardi, senti mi accompagni che finiamo di parlare?
A. la segue trotterellando, le offre una sigaretta, lei non fuma, lui si accende una Lucky Strike morbida e soffia il fumo nemmeno fosse un consumato attore hollywoodiano.
Alla fermata dell’autobus davanti al Mc Donald’s lei monta su un 13 e lo saluta con la mano, dicendogli che quella sera per le sette dovrebbe essere al Caffè Zamboni con qualche amica per un aperitivo per poi magari andare all’Irish. Vuoi venire? gli dice poco prima che le porte dell’autobus si chiudano con uno sbuffo.
A. dice certo, alle sette allo Zamboni.
Mentre si siede in Piazza Nettuno, davanti alla Sala Borse, con tutte quelle foto di morti di guerra a guardargli le spalle, pensa a quanto facesse cagare l’autore di cui ha tessuto le lodi.

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